REGGIO EMILIA – Il senso di colpa e il tabù sono le due tra le molle più potenti, e devastanti, dell’animo umano. Soprattutto se si parla di popoli latini, e cattolici, queste due leve, l’una che vorrebbe sottrarre e proteggere, far da frontiera e bloccare, l’altra che vorrebbe riparare ma a giochi fatti, sono le gocce del vortice del Yin e Yang che si inseguono, avendo necessariamente bisogno l’uno dell’altro per continuare ad esistere, perpetrare nel loro circuito di cadute e risalite, di tradimenti e pentimenti, di sbagli ed errori, di punizioni e perdoni, di istinti e razionalità. Se il tabù è la guerra preventiva, il senso di colpa agisce a cose già accadute, il ché presuppone che il danno, l’inganno, il misfatto sia ormai passato. Se il primo elemento agisce per negare un futuro, il secondo ingrediente si anima per giustificare, calmierare un ricordo, cancellare un passato.
Tra questi due argomenti sta la vita, il presente fallace dell’uomo, la sua condizione di eterno fallimento, il nostro quotidiano “Purgatorio”, sospesi tra il poter essere angeli e lo scegliere il demone che comunque ci abita. Limbo come quello che mettono in scena i Babilonia (passati dall’arrabbiatura punk degli esordi a questo nuovo percorso più riflessivo e introspettivo, maturo e posato) con alcuni attori portatori di vari handicap e patologie (se fosse un vinile sarebbe il b-side di un loro spettacolo del recente passato “Pinocchio”), “come pugili dopo un incontro, come gli ultimi sopravvissuti” in un impianto pulito, vuoto, ampio e scarno (“guarda che anch’io ho fatto a pugni con Dio”) con i sacchi da boxe (appesi in alto come puntine di un giradischi o taglienti ghigliottine nel loro pericoloso basculare) da colpire che sono i guai, le difficoltà, le montagne da scalare, l’avversario, il nemico. Siamo come sacchi da prendere a pugni, siamo sbilenchi e oscillanti in queste vite decentrate e fuori fuoco, storte e sciancate: “Abbiamo tutti perso”, urlano questi corpi colpiti.
Il ragionamento prende la piega sulla dicotomia purgare/spurgare; qui sta, da una parte, l’accusa a un Dio, se esiste, dall’altra alla Natura matrigna e al senso di colpa-j’accuse alla platea di “normodotati”. Se “purgare” contiene in sé la punizione (c’è anche un prete che ascolta i peccati di ogni personaggio che inevitabilmente si porta addosso le disabilità della persona) e lo “spurgare” assume i contorni della liberazione e della pulizia, emerge che il corpo deformato sia un castigo e insieme una possibilità di rinascita, una prova. Enrico Castellani è il “padre”, mai padrone, di questo equipaggio di marinai barcollanti ma tenaci, per un teatro umano che mette in dubbio le certezze, che sposta gli assiomi e le verità con l’instillare di punti interrogativi con delicatezza, l’apertura di porte con gentilezza. Mentre Chiara Bersani trascina la sua carrozzina, come Prometeo la pietra, e Daniele Balocchi con la palla stroboscobica è un Atlante contemporaneo, questi guerrieri veleggiano nelle loro incertezze e paure, che sono uguali alle nostre ma soltanto più visibili.
Senso di colpa che è fulcro e snodo anche della personalissima (come sempre originale e visionaria) versione del “Macbeth” pensato e architettato dai Lenz nelle loro forme deturpate, video nebbiosi sfumati, voci disturbanti come crepe a creare un tappeto dove i sensi si perdono e defluiscono, si miscelano come vasi comunicanti, si frantumano. Il canto shakespeariano sulla colpa e sui fantasmi che assillano la mente del colpevole qui diventa monologo (Sandra Soncini vestale rituale imperturbabile) ma supportato da un coro, in video, composto dai volti frammentati di pazienti detenuti in Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Pezzi di occhi e denti (di chi ha commesso realmente reati e si è macchiato di colpe indelebili) proiettati su una struttura circolare che ingloba come placenta, protegge come mano, si chiude come persiana, sbadiglia come confessionale, che è paravento dove nascondersi, grotta e abbraccio e curva. E’ chiara, presente e netta la paura e il confine valicato, momento e punto di non ritorno. Le frasi scagliate come un mantra (punto di forza e cifra stilistica riconoscibile) entrano, lacerano, si fanno spazio e indagano, ci vagano dentro in questo vuoto che ci cinge tra le immagini che ci aggrediscono ai lati della grande stanza o che si aprono come botole che ci ingoiano, che ci tirano giù. Questo cilindro centrale ha la pesantezza dello scafandro e la leggerezza del bozzolo di farfalla, che si srotola e si fa compatto, ci indica la mancanza, l’assenza, la menomazione. Il pentimento non toglie la colpa, e forse nemmeno ci salva, ci pulisce, ma rimane in sottofondo come rumore, sibilo costante.