Quella di Renzi non era una minaccia. Non era l’ultima spiaggia per convincere gli indecisi. Era un anatema. “Se vince il No, torneremo indietro di trent’anni!”. A cercare negli archivi degli strazianti sei mesi di campagna elettorale, in realtà la frase esatta del presidente dimissionario non viene fuori. Ma poco importa: “Si tornerà trent’anni indietro” era il senso di tutto. Ha girato per giorni la battuta nostalgica: “Magari! La Vespa, la minigonna, 15 chili in meno…”. Il punto è che il racconto collettivo è stato solo un miraggio lungo anni. Questo: la grande traversata nel deserto della crisi economica iniziata nel 2008 e della crisi istituzionale del 2013 avrebbe almeno dovuto portare alla Terza Repubblica, che – si diceva – qualunque forma avesse avuto, sarebbe stata meglio della Seconda, berlusconismo e antiberlusconismo, la guerra alla magistratura, gli errori della sinistra. Invece no, era uno scherzo, era il gioco dell’oca: quella appena finita era solo un supplementare. E dopo il referendum si alza il sipario, come direbbe appunto Maurizio Costanzo: ecco a voi la Prima Repubblica. Le consultazioni che hanno un programma più ampio del Festival di Cannes, Matteo Renzi che dice che lascia la politica in caso di sconfitta e invece sui giornali si aggira lo spettro del Renzi bis. E sullo sfondo il totem dei 50 governi della Democrazia Cristiana: il Proporzionale. “Oggi si sono celebrati i funerali del sistema maggioritario”. A firmare il referto non esiste firma più autorevole: l’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino.
Alla pagina facebook Una foto della Prima Repubblica. Ogni giorno – che tutto prevede perché tutto torna – deve andare il giusto tributo: un mese prima del disastro referendario aveva pubblicato una foto d’epoca delle Kessler: “Pippo Baudo a Domenica In; Michele Santoro a Samarcanda; Rischiatutto; De Mita in prima serata; Giovanni Minoli a Mixer. Il prossimo passo è farvi fischiettare Dadaumpa alla fermata del filobus e riportare prepotentemente le gemelle Kessler nell’immaginario erotico nazionale”. Il rischio è altissimo, visto che le Kessler hanno l’età di Berlusconi e quello nel frattempo non ci pensa nemmeno a schiodare. Anzi: dopo aver fatto flambé quello a cui aveva appena affidato le chiavi di casa (Stefano Parisi), è stato il primo a rimettere in campo il più inviso dei sistemi elettorali (a parole). Ansa, 29 ottobre: “L’unica direzione possibile di riforma elettorale è il ritorno al proporzionale con una seria soglia di sbarramento. Se nessuno dovesse davvero prevalere sarà necessario un accordo tra due poli, come è avvenuto in Germania, in Spagna e in Austria“. Ma come!, l’alfiere del “noi o loro“, dei “pro o contro“, dell’uso del comunismo per dividere il mondo tra buoni e cattivi, degli alleati e dei traditori (rispettivamente tutti coloro che gli dicevano sì e tutti coloro che gli dicevano “ma…”).
E da lì, da quell’uscita di Berlusconi, è diventata contagiosa l’euforia tra tutti i partiti che col proporzionale amano innaffiare ciascuno il proprio orto. Tutti i nanetti – da Sinistra Italiana in giù – hanno anticipato il trenino di Capodanno. Nella Lega Nord Matteo Salvini dice da settimane che il proporzionale gli fa schifo, ma Roberto Maroni gli suggerisce che “potrebbe andare un sistema come quello delle Regioni” (che è proporzionale, ma lì si vota il presidente). L’Italicum che il Pd aveva fatto approvare a spintoni – voti di fiducia, senatori catturati e deportati per rimuoverli dalle commissioni parlamentari – e che già non godeva di buona salute, è diventato improvvisamente una roba da abbandonare in strada come i frigoriferi di Roma, compreso il ballottaggio che decide chi vince (sia mai che ci sia qualcuno che vince). Quasi per gusto del contrario, il Movimento Cinque Stelle ha nascosto sotto al letto il proprio Democratellum (che proporzionale lo è già) e ha sposato proprio l’Italicum, un tempo combattuto e schifato come l’anticristo.
Detto per vie più facili, il proporzionale era quello che prima del 1994 faceva comporre le maggioranze di governo dopo le elezioni e non prima. “Ma gli mettiamo un premio di maggioranza per la governabilità” assicurano i partiti. La storia recente racconta del Porcellum – altro proporzionale – che aveva un premio troppo grosso che infatti la Consulta ha preso e gettato nel cestino. E, viceversa, anche un premio così (grosso) non ha impedito che nel 2013 l’Italia – tripolare come oggi – rimanesse senza governo per due mesi con vari tour di consultazioni che nemmeno i pullman di giapponesi. Le larghe intese furono la soluzione e potrebbero essere la condanna eterna. Infatti Rocco Buttiglione, uscito dal Quirinale, dopo aver rimosso le ragnatele, respirava a pieni polmoni: “Serve una legge proporzionale, la prossima legislatura deve essere quella della grande coalizione tra la sinistra democratica e i partiti che fanno riferimento al Ppe in Italia”.
L’allenamento è già in corso come suggerisce l’agenda di questi tre giorni del presidente della Repubblica, simile al menù di Natale. Il capo dello Stato ha dovuto sostenere 26 colloqui diversi per le consultazioni, con prenotazioni che sembravano quelle per i tavoli in discoteca. “Siamo in lista, ciao: Flavio Tosi più uno”.
Sono riusciti a eludere la selezione all’ingresso gruppi parlamentari che se misurati nelle urne servirebbe il nanoscopio: Fare! di Tosi, appunto, Democrazia Solidale, Civici e Innovatori che sono i combattenti e reduci eletti con Monti, Idea che a dispetto del nome è il movimento di Quagliariello e Giovanardi, il Movimento Partito Pensiero e azione, l’Unione Sudamericana Emigrati Italiani (rappresentata dalla sola giovane deputata brasiliana Bueno, o presidenci Mattareu) e, infine, la grande matrioska del Senato, il Gal, il grande imbuto, il porto franco, il rifugio di tutti i fuggitivi. Grandi Autonomie e Libertà consta infatti a sua volta di una lista di sottogruppi riconoscibili per i nomi da squadre da calcetto: Grande Sud, Popolari per l’Italia, Moderati, Idea, Alternativa per l’Italia, Euro-Exit, Movimento Politico Libertas. D’altra parte, come calcolava meno di due mesi fa OpenPolis, alla Camera ci sono 11 gruppi parlamentari di cui solo 4 riconducibili a liste elettorali presentate alle Politiche, mentre in totale, in questa legislatura, 263 parlamentari (uno su 4) hanno cambiato gruppo. Siccome qualcuno ha saltato di fiore in fiore anche per 5-6 volte (naturalmente anche dall’opposizione alla maggioranza e ritorno), i cambi in meno di 4 anni sono stati in tutto 555 tra Camera e Senato.
Il referendum fallito ha ribaltato tutto, anche la bussola. Retroscena raccontavano che il Rottamatore lunedì – dopo il voto – avrebbe voluto scomparire, andarsene in America, “ci credete che non riesco nemmeno a dimettermi?” avrebbe detto, stizzito, secondo il Corriere ai ministri. E invece è lì a tessere la tela per dare l’impronta su chi verrà dopo. Gentiloni è stato due volte in poche ore a Palazzo Chigi. Tra le richieste di Renzi, raccontano i giornali, c’è che resti sottosegretario Luca Lotti, il suo più fedele e meno vistoso. Probabilmente resteranno molti suoi ministri, ma non la Boschi – la faccia del crac. “Se vince il No – aveva detto più volte Renzi – lascio la politica”. Non il governo, non il Pd: la politica. “Volevo tagliare le poltrone, invece l’unica poltrona che salta è la mia” si era concesso l’ultimo gioco di parole prima di quello che sembrava un addio. E invece l’unica linea è quella di galleggiamento.
E allora se la Prima Repubblica è il libro di testo su cui ripassare, il rischio è che in un mondo rivolto all’indietro il Rottamatore assuma le sembianze del Rieccolo che tutti sanno è il soprannome con cui Indro Montanelli chiamava Amintore Fanfani. E Fanfani, nella sua sterminata carriera, un paio di esempi li ha offerti. 1959: logorato dalle minoranze interne della Dc che non vogliono il centrosinistra e lo crivellano di voti di franchi tiratori, si dimette sia da presidente del Consiglio sia da segretario della Democrazia Cristiana. Scompare un anno e torna nel 1960. E’ appena morto il governo Tambroni (quello dell’appoggio dei missini) e il ritorno di Fanfani fa l’effetto del ritorno del Salvatore. Fanfani inventa con Moro il centrosinistra e inizia da lí una lunga, produttiva stagione di riforme (la scuola media, l’aumento delle pensioni, l’Autosole, la Rai educativa). Ma quindici anni dopo Fanfani si mette sulle spalle – quasi da solo – le sorti del Sì al referendum abrogativo sul divorzio. Perde, ma non se ne va. Resta capo della Dc e alle Regionali il partito raggiunge il minimo storico. Ecco, forse a partire da qui Renzi può scegliere dove mettere il suo Sì e il suo No.