“Nessun posto è bello come casa mia”. È la battuta finale che ripete Dorothy (Judy Garland) ne Il Mago di Oz, gemma proto fantasy datata 1939, che torna in circa un centinaio di sale l’11 dicembre 2016 in tutto il suo smagliante Technicolor grazie al restauro digitale realizzato da Warner Bros. e presentato in Italia dalla Cineteca di Bologna. E quella battuta dopo 77 anni continua ad essere uno di quei misteri interpretativi e concettuali che il cinema hollywoodiano, ancora privo all’epoca di una contropartita intellettuale, se non in qualche singulto surrealista o negli sperimentalisti sovietici, ha saputo tenere sotto una fitta coltre di mistero da frotte di entusiasti adolescenti e da più accigliati critici letterari e cinematografici.
Come può una bambina che ha la fortuna di ritrovarsi in un regno fatato, zeppo di lussureggianti piante, buffi e strampalati esserini, streghe buone e meno buone, creature mezze uomo, mezze animale e mezze oggetto d’uso quotidiano, anelare di continuo al ritorno a casa in quel Kansas polveroso, miserello e contadino? Ce lo siamo chiesti per anni, dopo la prima visione in gioventù del film diretto da Victor Fleming, colui che di giorno girava Il Mago di Oz, e di notte, narra la leggenda, montava l’interminabile Via col Vento. Possibile che Dorothy nel suo completino bianco, azzurro e blu, fioccone tra i capelli, cestino di vimini all’avambraccio, scarpette rosse (ultrafatate) nei piedi, inseparabile e scaltro Totò al fianco (nel film il grazioso crain terrier Terry), preferisca sempre e comunque la casupola natia a rischio tornado? Furbi e non poco sono stati la produzione MGM e la dozzina di sceneggiatori che hanno riscritto lo straordinario, asciutto e fantasmagorico libro di L. Frank Baum, vero ideatore nel 1900 di quel regno di “Oz”, nome ottenuto osservando la seconda parte dello schedario della sua scrivania, nel reinventare la doppia analogia per i personaggi principali che permette un trapasso dolce e rinfrancante. Infatti nel contesto campagnolo attorno a Dorothy ci sono i buffi Professor Marvel, Hunk, Zeke, e Hickory; poi trasformati nel mondo fantasy nel Mago di Oz, nello Spaventapasseri, nel Leone codardo, e nel taglialegna di latta; e viceversa ritornati quelli originari nel ritorno a casa finale della protagonista. Trasformazione non presente nella favola letteraria che anzi, in nemmeno due pagine, liquida il terrificante luogo natio, catapultando subito Dorothy e Totò nell’aldilà fantastico, e che allo stesso modo in nemmeno mezza pagina chiude il loro ritorno a casa senza troppi fronzoli melanconici.
Quella Hollywood all’apice della visione commerciale mondiale seppe tradire il racconto di Baum, forgiando una matrice basilare di genere, e dando al viaggio della protagonista le parvenze di un bell’incubo avventuroso, musical ancora acerbo (se non per l’immortale Over the Rainbow di Arlen e Harburg cantata immobile tra le balle di paglia dalla dotatissima Garland), precisa metafora di un rassicurante “coming home”. Tutti i fantasy e i musical che vennero scritti e prodotti da Il Mago di Oz in avanti intuirono l’oscillazione possibile verso l’incubo completo di un sanguinario horror, o all’estremo opposto verso un defatigante viaggio fabuloso magari su stralunati passi di musical. Al centro del film rimarrà poi l’irripetibile ingenuità di Dorothy (nel libro è più cocciuta protervia) che nell’interpretazione dell’oramai all’epoca 17enne Garland riluccica di un’artificiosa innocenza che la dodicenne bambinella di Baum (e delle illustrazioni originali di W.W. Denslow) non voleva e poteva permettersi.
L’occhio lungo dei pigmalioni MGM trasformò la Garland in una stell(in)a in gonnella da scuole elementari, facendo rimbalzare su quel corpo troppo adulto la doppiezza parallela della fabula e del reale, della sorpresa nell’evasione dello sguardo come della responsabilità del quotidiano da riconquistare. Per lei ci fu, tra l’altro, subito un Oscar speciale per Il Mago di Oz, a cui seguirono dieci anni di trionfo tra i film con Mickey Rooney e i musical con Vincent Minnelli (con lui anche le nozze e la bimba Liza, Minnelli of course), barbiturici ed eccitanti in una parabola distruttiva e suicida che poi toccò analogamente a Marylin. Quando Cukor le fece interpretare una sorta di autobiografia, con È nata una stella (1954), fu come sollevare il velo dell’edulcorata impostura del Mago di Oz: l’innocenza di Dorothy, la coda del leone codardo che si muoveva col filo trasparente alla Ed Wood Jr, e l’agnizione delle truffe del Mago di Oz con la tendina che lo nasconde scostata solo perché appiccicata sulla schiena di un saettante Totò che spostandosi svela l’arcano.
Infine tanto si è detto dei tre grandi registi che abbandonarono il progetto (Andrè De Toth, George Cukor, King Vidor), ma poco di quegli altri tre cruciali attori costretti ad indossare i bizzarri costumi del leone, del taglialegna di latta e dello spaventapasseri, fondamentali compagni di viaggio di Dorothy nel mondo fatato di Oz. Tre perfetti ed artigianali figuranti come Ray Bolger, Bert Lahr, Jack Haley, mai entrati nel mito come per esempio si è fatto per personaggio ed interprete di C1P8 o Chewbecca, che oggi sarebbero sostituiti da irreali soggetti creati in computer grafica. A proposito, si rimane ancora piuttosto attoniti di fronte ai fondali artefatti – matte painting – che disegnano la città di Smeraldo con una piatta se non nulla profondità di campo, a sua volta ricreata soltanto con l’inclinazione dei piani di scena con le celebri mattonelle gialle delle stradine battute da Dorothy e compagnia tra campi, boschi e rocce fatate. Le possibili versioni in 3D che potranno essere viste in diverse sale italiane l’11 dicembre contribuiranno a rinvigorire la leggenda del fantasy da cui ogni bizzarria favolistica hollywoodiana iniziò.