di Donatella Girardi, psicologa e psicoterapeuta
Sono passati pochi giorni da quando a San Basilio, quartiere offeso della periferia romana, un gruppo di 30 inquilini di Via Filottrano, ha impedito a una famiglia marocchina di prendere possesso della casa popolare legittimamente assegnata dall’Ater (l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica del Comune di Roma,ndr). Gli inquirenti, al momento, contestano diversi reati nei confronti di cinque residenti: oltre alle minacce, resistenza a pubblico ufficiale e violenza privata, è stata contestata anche la violazione della legge Mancino sulla discriminazione razziale.
L’utilizzo della tematica razziale sembra liquidare l’episodio con una veloce condanna senza appello. Credo, tuttavia, che l’argomentazione discriminatoria sia uno strumento che la cultura della comunità di San Basilio ha – inopportunamente- utilizzato per esprimere il disagio e la delusione nei confronti delle politiche sociali e abitative delle amministrazioni.
Proviamo a tracciare una storia.
Fino a pochi giorni prima, l’appartamento assegnato alla famiglia marocchina era occupato abusivamente da Adriano, un signore romano di 50 anni che, fino ad agosto, ha vissuto in cantine e roulotte. Anche lui è in attesa di una casa popolare. Sono stati gli inquilini del condominio che, in seguito alla morte della vecchia assegnataria dell’appartamento, hanno informato il signor Adriano della possibilità di occupare.
La lotta per la casa è una dimensione culturale importante a San Basilio. Nei primi decenni del secolo scorso il piano fascista di risanamento del centro storico ha prodotto la nascita di nuovi insediamenti, come San Basilio tra il 1928 e il 1930. Viene definito “borgata”, né quartiere della città né campagna. Una via di mezzo.
La maggior parte dei nuovi abitanti delle borgate risiedeva precedentemente nelle zone del centro storico dove viveva esercitando un modesto artigianato. Con il trasferimento nelle borgate, molti sono costretti ad abbandonare l’attività nella quale erano impiegati. Nella borgata, infatti, gli abitanti sono tutti ugualmente indigenti. La borgata è distante e distinta dal resto della città. Gli abitanti appartengono tutti a una sola classe sociale, le case sono tutte uguali, senza fantasia e colore. Principalmente di edilizia popolare. Indistinte tra loro ma distinte dal resto. Perdere la casa in un posto e riottenere la casa in un altro sembrano essere elementi fondativi della comunità. Ancora oggi, forse.
È possibile immaginare che il triste evento che vede gli abitanti di San Basilio assumere posizioni xenofobe abbia le sue radici nella condivisa rappresentazione della lotta per la casa e per il diritto all’abitare come mito fondativo della comunità. La casa non è solo la casa ma un simbolo, un oggetto sovradeterminato. La stessa parola “comunità” rimanda, com’è noto, a una doppia valenza emozionale. Da una parte, il dono comune “cum munus”, dall’altra la difesa comune “cum moenia”. Possiamo ipotizzare che munus (dono) e moenia (mura) siano due differenti organizzatori della socialità e della identità del quartiere.
Le occupazioni mettono bene in evidenza questa ambivalenza del fare e del sentirsi comunità. Si occupa contro qualcuno, violando le regole condivise con l’altro, da dentro una rappresentazione dell’altro necessariamente nemica, sia esso il governo o lo straniero. Questo genera una coalizione interna alla comunità profondamente difensiva dei propri confini. Allo stesso tempo, questo estromettere dalle relazioni interne qualunque tensione, trasforma la comunità in un contesto bonificato, solidale, di sostegno reciproco, definitoriamente buono.
È possibile lavorare per una politica di sviluppo dei territori che sappia potenziare l’aspetto produttivo e solidaristico delle relazioni sociali? Lo domando e me lo domando come cittadina e professionista.