Ho appena terminato di leggere Rais di Simone Perotti (Frassinelli), e non voglio solo segnalarlo agli appassionati di romanzi storici, o agli indecisi tra una strenna e l’altra (vi assicuro non sbagliate) tra pile di libri (molti ne hanno solo l’aspetto…) in affollatissime librerie natalizie, ma colgo l’occasione per qualche riflessione in più.
L’impressione forte è che questo libro apra e offra nuova linfa a un genere letterario che merita di essere riscoperto, parliamo del romanzo mediterraneo. Se la letteratura è anche la capacità di offrire nuovi punti di vista, Rais disegna davvero un altro e vasto orizzonte ancora inesplorato. Del Mediterraneo ci ha magistralmente parlato in qualità di storico Fernand Braudel (tra i tanti studi il più accessibile è Il Mediterraneo, Bompiani), o per la “geopoetica” il punto di riferimento è Predrag Matvejevic (Mediterraneo. Un nuovo Breviario, Garzanti), ma era tempo che la letteratura non offrisse una diversa prospettiva, quella emotiva, quella di chi ha navigato, quella del mare.
Il Rais di cui parla Perotti altri non è che Dragut, il quale per chi non ha ancora letto il romanzo rimane un banale sanguinario pirata come tanti altri. Ma chi era davvero Dragut, in quale contesto viveva, a quale cultura apparteneva il bimbo rapito che diventa Kapudan Pascià, ammiraglio in capo della flotta ottomana? A noi sfugge perché per capire dovremo rovesciare il Mediterraneo che a quel punto si trasformerebbe in Mar Bianco (così come lo chiamavano gli ottomani) e confrontarci con una cultura che non conosciamo e che in parte abbiamo sempre rifiutato come ostile.
Il problema è che del Mediterraneo non puoi capir nulla (e quindi non puoi capire chi sei e quale sia la tua reale identità) se non sei capace di mescolare le carte, guardarle da più punti di vista. Rais ci racconta il mare del XVI secolo attraverso lo sguardo di un pirata, una macchina di morte, perché morto è già lui stesso, un uomo la cui indipendenza e l’indomito spirito di libertà (così connesso a chi del mare vive) è capace di scompaginare gli intrighi della politica, delle alleanze, dei misteri di un’epoca le cui tragedie si giocano tutte nel mare nostrum, ma servono a preparare una nuova epoca, quella delle grandi scoperte dove il mondo si espande, si allarga come gli appetiti degli uomini. Così la storia di Dragut si intreccia anche con quello della Carta del Mondo e il Kitab-I-Bahriye, una straordinaria mappa e portolano del grandissimo Piri Reis, un segreto che non è ancora stato svelato.
Quella di Perotti non è, voglio ribadirlo con forza, una visione dall’alto, perché quell’epoca straordinaria è raccontata in prima persona da chi la sta vivendo, con le incognite, i dubbi e gli interrogativi della cronaca che non si è ancora fatta storia. E questo solo un romanzo può farlo, solo il racconto è capace di misurarsi con un linguaggio emotivo, che per di più utilizza una lingua mediterranea capace di giocare tra la storia e la leggenda, tra i sentito dire e il mito che permea qualunque avvenimento degli uomini su questo mare.
Il romanzo mediterraneo naviga sull’onda del verosimile, non semina certezze storiche, ma è capace di offrire una consapevolezza nuova, intima, una forma di conoscenza di cui abbiamo bisogno, soprattutto oggi, per interpretare la realtà che ci circonda. Un’ultima chiosa, un spunto che non posso astenermi dal commentare è la figura di Bora, l’amante, l’unico amore del Dragut di Rais, una schiava, rapita anch’essa come lui, che vive reclusa in un’isola e lo attenderà per tutta la vita. Bora è la sublimazione dell’amante, ciò che di più perverso il cervello maschile potesse concepire, ma anche di più straziante e dolce nell’annullamento all’amore più puro a cui non ci può che abbandonare.
Ciascuno, però, legga questo rapporto a modo suo. L’auspicio è che, come si diceva all’inizio, questo genere letterario abbia fortuna, che altri autori e lo stesso Perotti si cimentino con il romanzo mediterraneo, che ci siano altri editori coraggiosi come Frassinelli capaci di interpretare nuovi e profondi fermenti culturali.