È stata l’unica esclusa dal governo Gentiloni, dopo due anni e mezzo all’Istruzione passati a scrivere la riforma della Buona Scuola. Stefania Giannini è l’unica ad avere pagato, mentre Poletti, Madia e Galletti – solo per fare alcuni nomi – sono stati riconfermati a Palazzo Chigi. Contestata dai docenti, sfiduciata a palazzo, la Giannini probabilmente sarebbe stata rimpiazzata anche in caso di vittoria del sì al referendum. Adesso non verrà rimpianta né dal mondo della scuola, che non l’ha mai amata, né dalla “sua” università, che ha trascurato.
Ma quale eredità lascia l’ex ministra alla neotitolare di Viale Trastevere Valeria Fedeli? Paolo Gentiloni ha scelto la vicepresidente del Senato, una vita in Cgil prima di approdare tra le fila del Pd, una sindacalista renziana (praticamente un ossimoro) per ricoprire una delle caselle più delicate del nuovo esecutivo, dopo le proteste per la riforma che hanno avuto un ruolo non marginale nella perdita di consenso del governo Renzi.
Il bilancio dei suoi tre anni al Miur della Giannini è una lunga serie di incompiute: la lotta alla supplentite mai guarita, nonostante un numero esorbitante di assunzioni; gli sforzi sull’edilizia scolastica, vani visti i ripetuti crolli; le riforme di sostegno, infanzia e reclutamento ancora in sospeso che a questo punto rischiano di non vedere mai la luce; la “Buona università” che non è stata neppure partorita. Fallendo per un motivo o per l’altro praticamente in tutto, è riuscita a diventare il ministro dell’Istruzione più contestato della storia recente, superando persino le odiate Moratti e Gelmini. E questa sì che è un’impresa.
Una riforma sbagliata – Indiscutibilmente la Giannini verrà ricordata per aver messo la firma su quella riforma, la Buona scuola, che non ha neanche condiviso fino in fondo (lei l’avrebbe voluta e attuata in maniera diversa, ma ha dovuto convivere con le indicazioni che arrivavano dal Pd e dallo stesso Renzi). Un progetto realizzato solo a metà, forse troppo ambizioso. A partire da quella promessa fatale, perché impossibile da mantenere, di stabilizzare in blocco 150mila precari e “abolire le supplenze”, che ha pregiudicato tutto il percorso successivo. L’ex ministra ha cercato di introdurre principi anche condivisibili, come il merito e l’interazione col mercato del lavoro, nel mondo della scuola. Ma lo ha fatto nella maniera sbagliata, attraverso bonus, chiamata diretta e stage aziendali discutibili che fin qui hanno solo creato caos negli istituti. Poi, su processi molto delicati come i trasferimenti degli insegnanti o la del concorsone, sono stati commessi errori anche grossolani. Facile capire come si sia arrivati al clima di “sommossa popolare” che ha accompagnato più o meno stabilmente tutta la seconda parte del suo mandato.
I contrasti con Renzi – Criticatissima fuori, la Giannini non è mai stata particolarmente apprezzata neanche all’interno del governo, dove era entrata in quota Scelta Civica prima di transitare nel Pd per ridurre le distanze dal premier. Ma il rapporto con Renzi, che pure aveva messo al centro del programma di governo il suo ministero, è andato avanti tra pochi alti e molti bassi. Sin dal gelo sulle paritarie nel 2014, per delle dichiarazione un po’ incaute del ministro al meeting di Comunione e Liberazione. Poi lo scontro aperto durante l’approvazione della riforma, su tempi, numeri e modi delle assunzioni (in quei giorni concitati si era parlato anche di possibili dimissioni). Da allora lo strappo non è più stato ricucito, con il premier che continuava a sottolineare gli errori commessi nella riforma e la ministra che rispediva le accuse al mittente. Una sfiducia conclamata che avrebbe portato comunque ad un addio: quello all’Istruzione, infatti, è l’unico cambio non strettamente legato all’esito del referendum. Molto probabilmente la Giannini sarebbe saltata lo stesso, a viale Trastevere si preparavano a quest’eventualità da un mese. Perché l’ormai ex presidente del Consiglio non era per nulla contento della sua gestione, soprattutto dal punto di vista della comunicazione: le imputava il crollo di consensi fra i docenti: “Bisogna essere bravi per assumere 100mila persone e farle arrabbiare tutte…”, ripeteva infuriato nei giorni precedenti al voto. Il resto lo ha fatto il referendum.
Edilizia, digitale ed assunzioni non bastano – Adesso Gentiloni si affiderà a Valeria Fedeli: proprio per la sua provenienza dal mondo sindacale la vicepresidente del Senato alla fine è stata preferita alle altre opzioni interne (il capogruppo franceschiniano alla Camera, Ettore Rosato, troppo lontano dall’Istruzione; o la “pasionaria” Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd, tra le menti della Legge 107 e per questo già invisa ai docenti). Dovrà cercare di ricostruire un dialogo con gli insegnanti e raccogliere la controversa eredità della Giannini. Dalla sua l’ormai ex ministro può rivendicare comunque una serie di provvedimenti che hanno segnato l’inizio di un processo importante per la scuola italiana: su tutti il piano digitale da quasi un miliardo di euro, i cui effetti si vedranno nei prossimi anni. Oppure le assunzioni, che pur tra mille polemiche alla fine del prossimo concorso sfioreranno il conto complessivo delle 180mila unità. O ancora i tanti investimenti sull’edilizia scolastica. Nonostante un saldo numericamente positivo, lascia però come il ministro della scuola più odiato di sempre. Come sia stato possibile è ciò che si chiedeva Renzi. Forse adesso se lo chiede pure la Giannini.
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