Ergastolo con l’aggravante di terrorismo per il boss Salvatore Madonia ed ergastolo per il mafioso Vittorio Tutino: il primo mandante e il secondo esecutore della strage di via D’Amelio. Otto anni e sei mesi di reclusione per il falso pentito Vincenzo Scarantino, quattordici per Francesco Andriotta e Calogero Pulci che hanno riscontrato le sue dichiarazioni: i tre sono accusati di calunnia per aver coperto la vera storia della strage sotto una montagna di menzogne certificate dalla Cassazione. Con queste richieste i pm di Caltanissetta Stefano Luciani e Gabriele Paci, affiancati in aula dal nuovo capo Amedeo Bertone, hanno concluso la requisitoria del processo Borsellino quater, senza però diradare fino in fondo tutte le ombre sul depistaggio che l’ex procuratore Sergio Lari aveva descritto come “il più clamoroso della storia giudiziaria”.
Il falso pentito Scarantino? “Mentì per tornaconto personale” – Chi inquinò le indagini su via D’Amelio? La procura oggi sostiene che dietro le menzogne sulla strage non vi è un vero e proprio copione istituzionale. Se avesse scritto la partitura da mettere in bocca a Scarantino, ha detto il pm Paci, il superpoliziotto “Arnaldo La Barbera non avrebbe inserito tanti elementi poi rivelatisi inconsistenti: come la riunione fasulla dei boss a Villa Calascibetta”, e cioè il falso summit in cui – secondo il balordo della Guadagna – fu deliberata la strage. E quindi? Secondo i pm nisseni è stato Scarantino “a inventarsi di volta in volta bugie e falsità, accogliendo i suggerimenti degli investigatori e fornendo le risposte che si aspettavano”. E perché l’avrebbe fatto? “Per un tornaconto personale – dicono i pm – consistente nell’uscire dal carcere e avere dei benefici”. Quando si pente, il 24 giugno del 1994, Enzino è già stato condannato a 9 anni per droga ed è accusato da Andriotta del furto della Fiat 126 poi esplosa in via D’Amelio. A quel punto, spiega Paci, si sente “incastrato” e intravede nel falso pentimento l’unica possibilità di sfuggire ai rigori di Pianosa.
“Menzogne non coprono responsabilità istituzionali” – Ma senza una sceneggiatura scritta per lui, come fa il manovale della Guadagna ad ingannare i magistrati? Ci riesce perché, secondo i pm, “non è quell’infimo balordo di periferia che qualcuno ha descritto”, ma un soggetto immerso “nelle dinamiche mafiose della sua borgata” perfettamente capace di “rielaborare la sua esperienza criminale e di rivisitare notizie apprese dai giornali”. È in questo modo che il picciotto confeziona “una trama dichiarativa piena di contraddizioni”: un canovaccio traballante che comunque l’asso dell’antimafia La Barbera, lo stesso che tra l’86 e l’88 era a libro paga del Sisde, decide di perseguire fino in fondo. Le menzogne di Scarantino, infatti, “non coprono le gravissime responsabilità istituzionali”. Spiega Paci che “il falso pentito non avrebbe mai potuto, da solo, imbastire una narrazione coerente, in grado di reggere ai tre gradi di giudizio dei processi Borsellino Uno e Bis”. Appare pertanto evidente che La Barbera e i suoi uomini “si resero responsabili di abusi, pressioni psicologiche, contatti irrituali (i numerosi colloqui investigativi) e domande suggestive” per costringere Scarantino a pentirsi, e poi per aiutarlo a tenere in piedi la sua narrazione farlocca, “facendo un uso del tutto improprio del loro ruolo istituzionale”.
I dubbi irrisolti: la nota del Sisde – Ma per quale motivo? Cui prodest, insomma, il depistaggio di via D’Amelio? Qui la procura non va oltre le ambizioni del capo della Mobile di Palermo, ipotizzando che tutte le forzature sulla pista Scarantino possano derivare “dalla fretta di La Barbera di fornire una risposta concreta alla domanda di giustizia, divenuta pressante dopo le stragi”. Ma è davvero tutto qui il depistaggio di via D’Amelio? Nella requisitoria, i pm hanno sottolineato il certosino lavoro di ricostruzione compiuto a partire dal 2008, quando il pentito Gaspare Spatuzza ha demolito l’indagine inquinata rivelando di essere il vero ladro della Fiat 126 e costringendo gli inquirenti a riscrivere da capo l’intera dinamica della strage. Ma se la nuova versione di Spatuzza ha portato al “salvataggio” giudiziario di otto innocenti condannati per errore all’ergastolo (tuttora al centro del processo di revisione in corso a Catania), non tutti i dubbi possono dirsi risolti. I pm, per esempio, non si spiegano la nota del Sisde, datata 13 agosto 1992, nella quale si fa riferimento ad una fonte confidenziale e si anticipano notizie sul luogo dove la Fiat 126 sarebbe stata custodita prima della strage. Ma non solo. Dopo aver chiesto e ottenuto l’archiviazione dei tre funzionari di Polizia (Mario Bo, Salvatore La Barbera e Vincenzo Ricciardi), tutti ex componenti della squadra Falcone-Borsellino, inizialmente sospettati di aver orchestrato il depistaggio alle dipendenze di La Barbera, il pm Luciani in aula si è voluto scrollare di dosso le critiche di una presunta timidezza investigativa, scaricando il peso di quel flop sull’inconsistenza delle accuse di Scarantino & co. che avevano denunciato violenze e soprusi cadendo spesso in contraddizione: “Queste sarebbero le dichiarazioni che noi non vogliamo valutare per fare un piacere a qualche potente? – ha chiesto il pm – Come facciamo ad orientarci in mezzo a questo labirinto?”.
“Accuse di Lo Giudice a Faccia da mostro sono inconcludenti” – Per gli inquirenti, poi, non hanno valore neanche le parole messe a verbale dal pentito di ‘ndrangheta Antonino Lo Giudice. Il Nano è uno degli accusatori di Giovanni Aiello, l’ex poliziotto indicato come “Faccia da mostro”, il killer con tesserino dei servizi segreti in tasca al servizio di Cosa nostra tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. E su questo tema, alla fine della requisitoria, ha preso la parola il nuovo capo dei pm Bertone: “I riferimenti che Lo Giudice fa ad Aiello – ha detto – sono assolutamente inconcludenti per quanto riguarda i processi di nostra competenza, anche se ci può essere un riferimento alla presenza di questo personaggio di altri collaboratori in riferimento ad altri contesti che non però sono di competenza di questo ufficio”. E poi ha aggiunto: “Ma a chi ci sollecita dall’esterno (il riferimento è ad articoli di stampa, ndr), diciamo che non è affatto vero che Caltanissetta guarda Aiello con lo stesso entusiasmo con cui Trump guarda un clandestino messicano che attraversa il confine con gli Usa”.
Le indagini, nel frattempo, proseguono. Si scava sulla presenza di alcuni 007 individuati sul luogo della strage. E la procura indaga anche su altri sei sottufficiali di polizia sospettati di aver ”indottrinato” Scarantino durante il suo soggiorno nella località protetta di San Bartolomeo al Mare, in provincia di Imperia. Nell’ultimo anno, i poliziotti coinvolti nelle due indagini stati tutti interrogati in aula, compresi gli archiviati Bo e Ricciardi. E il pm Luciani non ha nascosto il suo disappunto per le sconcertanti amnesie istituzionali: “Una condotta inaccettabile – ha detto – per funzionari dello Stato”.