Il secondo pilastro del Jobs Act si basava sul presupposto che lo Stato avrebbe avuto competenza esclusiva sulla materia. Il trionfo del No cambia il quadro: l'Agenzia nazionale per le politiche attive non potrà gestire direttamente i centri per l'impiego. Il rischio è che i disoccupati preferiscano spendere il nuovo "assegno di ricollocazione" nelle agenzie private. L'altra patata bollente riguarda i dipendenti pubblici: per garantire l'aumento servono più fondi
Un pasticcio prevedibile. Che però Matteo Renzi, scommettendo tutto sul Sì alla riforma costituzionale, non ha voluto prevenire. Così ora anche la patata bollente delle “politiche attive del lavoro“, uno dei pilastri del Jobs Act che esce fortemente indebolito dal trionfo del No, passa nel mani del suo successore Paolo Gentiloni. Insieme al rebus del rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici, visto che l’intesa firmata il 30 novembre con i sindacati è solo una cornice che va riempita di contenuti e finanziata con nuove risorse.
Italia fanalino di coda per i servizi pubblici a chi cerca lavoro – Le politiche attive, cioè gli interventi per favorire il reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, sono cruciali per far incontrare domanda e offerta. Quanto l’Italia sia indietro in questo campo lo dimostrano gli ultimi dati Istat, stando ai quali l’83% di quanti sono in cerca di lavoro si rivolgono a parenti, amici e conoscenti invece che ai canali ufficiali, mentre meno del 4% dei nuovi occupati si è rivolto al collocamento pubblico. Per ribaltare il quadro la riforma renziana puntava a centralizzare tutti i poteri in materia in capo alla nuova Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), che ha assorbito anche l’agenzia Italia Lavoro. Dov’è allora il problema? Il presupposto della “svolta” era che che l’assistenza nella ricerca di un’occupazione diventasse competenza esclusiva dello Stato, come previsto dal nuovo testo costituzionale bocciato dagli italiani il 4 dicembre.
Il lavoro resta materia concorrente. Addio allo standard uniforme per i centri – Ma, con la vittoria del No, la “tutela e sicurezza del lavoro” resta materia concorrente tra Stato e Regioni. Così, come ha ammesso lo stesso presidente Anpal Maurizio Del Conte, nascono “una serie di problemi”. Dal futuro dei quasi 7mila dipendenti degli oltre 500 Centri per l’impiego pubblici – finiti nel limbo in seguito allo svuotamento delle Province previsto dalla legge Delrio e destinati ora a rimanere in capo alle Regioni – alla auspicata standardizzazione degli interventi per ricollocare i disoccupati. L’Anpal dovrà coordinarli, stipulando probabilmente convenzioni ad hoc con ogni ente locale, ma non li gestirà direttamente come prevedeva il decreto legislativo dello scorso giugno in base al quale i centri avrebbero dovuto diventare la “rete nazionale dei servizi” dell’agenzia. Resteranno immutate, quindi, le disparità Nord-Sud. Altro che standard uniforme a livello nazionale e “superamento della frammentazione dei mille sistemi regionali”, come prometteva a fine novembre l’ex sottosegretario alla presidenza del consiglio Tommaso Nannicini.
Il nuovo assegno di ricollocazione azzoppato e il rischio che favorisca le agenzie private – In questo quadro, a gennaio 2017 partirà azzoppato l’assegno di ricollocazione, nuovo strumento che punta ad affiancare al tradizionale sostegno al reddito di chi perde il lavoro (erogato dall’Inps) un intervento concreto per aiutarlo a trovarne un altro. L’assegno, che nella fase sperimentale sarà riconosciuto a 10mila disoccupati percettori di Naspi da almeno quattro mesi estratti a sorte, potrà infatti essere speso anche nelle agenzie per l’impiego private accreditate nelle diverse regioni. Il fornitore del servizio avrà diritto a incassarlo solo quando il disoccupato avrà trovato lavoro. Più “solido” sarà il contratto, più la cifra crescerà. L’ammontare varierà anche in base al “profilo di occupabilità” del beneficiario: meno sarà ritenuto interessante per il mercato, maggiore sarà il sostegno riconosciuto per aiutarlo a reinserirsi. Il tetto massimo, fissato nella fase di sperimentazione a 5mila euro, spetterà a centri o agenzie che riescono a ricollocare a tempo indeterminato un disoccupato poco appetibile per età o competenze. Per contratti a termine di almeno 6 mesi l’ammontare andrà invece da 500 a 2.500 euro, a seconda del profilo, e se la durata del contratto sarà inferiore ai 6 mesi (opzione prevista solo se il disoccupato risiede in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia) non potrà superare i 1.250 euro.
Il rischio è che, in mancanza della garanzia di una qualità uniforme dei centri pubblici, risultino favorite le agenzie private. Che hanno in tutto circa 10mila operatori, tutti impegnati nel seguire la formazione e ricollocazione dei lavoratori mentre i colleghi che lavorano nel pubblico dedicano il 50% del tempo a erogare certificati di disoccupazione facilmente sostituibili con autocertificazioni. E le agenzie hanno anche un’altra carta vincente: possono stipulare con il disoccupato contratti di somministrazione (gli ex interinali) sia a termine sia a tempo indeterminato e poi “prestarlo”, anche per periodi brevissimi, alle aziende che ne hanno bisogno. Con effetti indesiderabili sulla qualità del lavoro e sulla produttività del sistema.
Il nodo statali: risorse da trovare e atti di indirizzo da scrivere – Sul fronte del lavoro pubblico in ballo c’è il rinnovo del contratto dei 3,3 milioni di statali, congelato da sette anni. L’accordo politico siglato pochi giorni prima del referendum prevede 85 euro medi di aumento contrattuale per il triennio 2016-2018 e la modifica della legge Brunetta, nella parte in cui prevede la classificazione dei dipendenti pubblici in fasce di merito e stabilisce che il 25% degli statali giudicato meno meritevole non abbia diritto ad alcun incentivo. Ma, per prima cosa, non è detto che il nuovo governo si ritenga vincolato a quell’intesa. E, se anche decidesse di procedere su quella strada, la cornice che va riempita di contenuti e di risorse fresche. I fondi stanziati nella legge di Bilancio 2017 – meno di 900 milioni – anche sommati ai 300 milioni della precedente legge di Stabilità non sono infatti sufficienti per garantire l’incremento promesso: servono quasi 2 miliardi l’anno. Sul fronte normativo, per riaprire ufficialmente la contrattazione occorre il varo del nuovo Testo unico sul pubblico impiego, che prima della caduta di Renzi era atteso per l’inizio del 2017, e la preparazione di quattro atti di indirizzo (uno per ogni comparto della pubblica amministrazione) firmati dal ministro competente. Solo quando li avrà ricevuti l’Aran, agenzia che rappresenta il governo nei negoziati, avvierà concretamente la trattativa con le sigle sindacali. Facile prevedere che non se ne parlerà prima dell’estate del prossimo anno.