Silvia Balbo, 40 anni, da otto vive a Minneapolis, dove insegna e coordina un gruppo di lavoro che studia il meccanismo attraverso cui agenti esterni come il tabacco o l’alcol possono creare un danno specifico al Dna, che poi porta alla formazione del tumore
“Ogni volta che arrivi in un posto nuovo devi ricominciare da zero, ma quando ti guardi indietro ti senti gratificato e capisci che quei momenti ti sono serviti a diventare più forte”. Silvia Balbo, ricercatrice e professoressa alla University of Minnesota, la prima valigia l’ha preparata poco dopo aver iniziato il dottorato: “Una volta presa la laurea in Chimica e Tecnologie farmaceutiche ho continuato i miei studi nello stesso dipartimento, ma una parte della ricerca richiedeva delle analisi che a Torino non era possibile fare, così sono andata a Bruxelles”, racconta a ilfattoquotidiano.it. Lavorando lì è nata la possibilità di collaborare con lo Iarc (Istituto internazionale di ricerca sul cancro) di Lione e lei non se l’è fatto ripetere due volte.
Oggi Silvia, vincitrice del premio Hogan Lovells Award in Medicine, Biosciences and Cognitive Science (ex aequo con il cardiologo Gaetano Santulli), di anni ne ha 40 e da otto vive a Minneapolis, dove insegna e coordina un gruppo di lavoro che studia il meccanismo attraverso cui agenti esterni come il tabacco o l’alcol possono creare un danno specifico al Dna, che poi porta alla formazione del tumore.
Ma facciamo un passo indietro. Silvia è arrivata negli Stati Uniti nel 2008 e ci tiene a sottolineare che si è trattato di una decisione consapevole, non dettata dalla necessità: “Non mi piace definirmi ‘cervello in fuga’, perché volendo avrei avuto la possibilità di fare la ricercatrice in Italia”, sottolinea. “Durante gli studi avevo già intenzione di fare un’esperienza all’estero – aggiunge -, ma non ero sicura di voler lasciare il nostro Paese. Ho solo colto l’opportunità che sentivo più vicina ai miei studi”.
Nonostante la grande motivazione, gli inizi nel Minnesota non sono stati semplicissimi: “Oltre alla difficoltà di essere l’ultima arrivata, c’era anche quella di gestire l’impatto con gli Stati Uniti, sia dal punto di vista lavorativo che pratico”, ammette. Una volta superato lo scoglio iniziale la strada è diventata in discesa e ora Silvia riesce a portare avanti il suo lavoro, giorno dopo giorno: “L’epidemiologia di molti tumori è chiara, ma noi cerchiamo di capire qual è la catena di eventi che portano al loro sviluppo, cercando di decodificare le modifiche del Dna a livello molecolare – spiega -, l’obiettivo è quello di sviluppare delle tecniche che permettano a livello individuale di capire se una persona è più esposta di un’altra e come potrebbe rispondere a un’eventuale terapia”.
Negli Stati Uniti Silvia riesce a programmare il suo lavoro di ricerca senza troppe preoccupazioni: “Non ho un contratto a tempo indeterminato, ma qui se lavori bene puoi star sicuro che i fondi non mancheranno, né per la ricerca, né per le strumentazioni”. Sicurezza che i ricercatori italiani non hanno quasi mai: “Nel nostro Paese ci sono degli ottimi gruppi di lavoro, ma con le borse di studio a breve termine non sai mai che piega potrà prendere il futuro. Qui non potrebbero mai concepire l’idea di lavorare gratis per sei mesi in attesa di altri fondi”.
Difficoltà economiche a parte, il lavoro del ricercatore richiede una gran dose di sacrificio e coraggio: “Qui negli Usa dicono ‘Care about what you’re doing’ e io sono completamente d’accordo – spiega -, se non trovi interessante quello che stai facendo non c’è background che tenga, non arrivi da nessuna parte”.
Anche se si trova a migliaia di chilometri dall’Italia, Silvia porta sempre nel cuore il nostro Paese e anche dal Minnesota cerca di dare il proprio contributo, accogliendo nel suo laboratorio alcuni studenti italiani per il dottorato o per il lavoro di tesi. “Io non sono fuggita da una situazione negativa, per cui ci tengo a mantenere un rapporto con i miei colleghi oltreoceano – sottolinea -. Per questo ho cercato di creare un ponte tra gli Stati Uniti e l’Italia, ospitando i dottorandi che hanno voglia di fare un’esperienza all’estero”. Un progetto che sta funzionando bene: “Questa idea mi è molto cara – ammette –, perché mi permette di restituire al nostro sistema tutto quello che mi ha dato in termini di studi”.
Silvia, però, ci tiene a mettere in chiaro un’ultima cosa: “Il nepotismo nell’università italiana è un fenomeno che sicuramente esiste – sottolinea -, ma non scordiamoci di tutte le persone che valgono e si sacrificano tutti i giorni pur di portare avanti il loro lavoro, senza cedere alla tentazione di andare all’estero”.