“Se te lo racconto, mi prometti che non mi cacci di casa. Se te lo racconto, mi prometti che non lo dirai a tuoi figli. Altrimenti pensano di me che sono un bastardo”. Stefan me lo dice con quegli occhioni verde bosco che vorrebbero abbracciare il mondo, ma il mondo non abbraccia lui. Me lo dice tra i denti mentre prepariamo un pacco di Natale per sua madre da spedire a Ruse (a 300 chilometri da Sofia, Bulgaria) e mi chiede: “Cosa ci metto dentro?”. Apro i cassetti, tiro fuori saponi, bagnoschiuma, shampoo, spazzolino, dentifricio, nastri natalizi, una collana di perle (di bigiotteria, ma fa la sua figura), orecchini di strass, un anello, un pacchetto di sigarette, un accendino… Mentre li infilo uno ad uno nella scatola di cartone, gli faccio: “A tuo padre nulla?”. Il ragazzo, senza ieri, senza domani, si incupisce e non risponde.
Ho conosciuto Stefan Ivanov, un anno fa, all’angolo di Via Solferino, sul marciapiede, all’altezza del Centro Botanico, aveva fatto la sua tana di cartone. Faceva molto freddo, gli ho offerto una cioccolata calda. Il giorno dopo sono ritornata, stava sempre lì, gli ho portato una pizza… poi gli ha fatto conoscere i miei figli, lo abbiamo invitato al ristorante da “Non è peccato”. Non era abituato a essere servito voleva portare il suo piatto in cucina. Insieme andiamo al cinema, a vedere una mostra alla Triennale, gli ho pagato 3 volte il biglietto in autobus per andare a trovare la famiglia. Ha solo 27 anni ma ha già una figlia di 7 anni.
Quando fa molto freddo, gli offro un letto a casa nel soggiorno, non ho una stanza per gli ospiti, gli offro una doccia calda. Ha un suo armadietto con le sue cose. Mi ripete spesso: “Sono un barbone, ma voglio essere pulito”. E io mi sono fidata dei suoi occhi buoni. Quando mi accompagna a fare la spesa al supermercato, alla cassa farebbe passare avanti l’intera fila. Gli chiedo ancora: cosa ha fatto tuo padre? E mi lascia entrare nel suo abisso di mostruosità.
“Mio padre ha violentato mia sorella quando aveva 14 anni e continua a farlo. Da 16 anni”. E tua madre? “All’inzio non voleva vedere. Poi mio padre l’ha cacciata dal letto e ci ha infilato mia sorella”. E tua sorella non si è ribellata? Ogni sua parola mette i brividi. “All’inzio non capiva, credo. Poi ha pensato che fosse la normalità. Mio padre le faceva tanti regali, bicicletta, telefonino… Da quando era piccola voleva bene solo a lei. A me e mio fratello ci picchiava solo”. Sua madre non ha cercato di aiutare tua sorella? Che lavoro fa tuo padre? Perché non lo ha denunciato? “Il muratore, mia madre fa le pulizie. Guadagna 200 euro al mese. Credo che mia madre si vergognasse di andare dalla polizia”. Stefan trova a fatica le parole. “Mia madre alla fine ha cacciato di casa sia lui che mia sorella. Vivono in un altro paese. Nessuno della mia famiglia vuole più avere contatti con loro. Io sono venuto in Italia. Ho rimosso questa brutta storia. Per questo non te ne ho mai parlato… Ho paura che tu mi giudichi male, ho paura che tu pensi che io sono come mio padre”.
No, non lo penso. Ma come si supera il trauma dell’orrore? L’aver vissuto con un orco tra le mura domestiche. Come si concilia la sua voglia di una vita nuova in Italia, dove sogna di portare sua figlia e sua moglie, con la paura di tutti noi di accogliere il “diverso”. Li accogliamo ma di fatto alziamo barriere dentro di noi.
Perché ci si può sentire cittadini di un paese diverso da quello nel quale si è nati. E il mio Stefan, con in tasca la tessera dell’Opera San Francesco per i Poveri, dice: “Io mi sento metà italiano”.
Non propongo soluzioni buoniste: la formula “me ne prendo uno a casa”, ma ne lascio centinaia per strada al freddo, è solo una goccia di carità in un oceano di indifferenza.
Eppure c’è un gruppetto di ragazzi a Milano che una, due volte al mese porta ai senzatetto un pasto caldo, un tè, un pullover, una coperta, ma soprattutto una parola di conforto. Hanno formato un gruppo su Facebook che si chiama Critical Square Milano per chi una sera avesse voglia di togliersi dal calduccio della propria tana e dare una mano a questi angeli urbani. Ecco, se incontriamo uno dei tanti Stefan, per strada, accartocciati dentro le loro casette di cartone, proviamo solo a non voltare lo sguardo dall’altra parte.