I funzionari messicani sono stati ritenuti colpevoli di omicidio volontario e della violazione dell’articolo uno della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. "Non é stato facile andare contro uno Stato" ha detto la madre del turista di 34 anni ucciso nel 2007
Dai 21 ai 25 anni di carcere. Sono queste le pene emesse dalla corte d’assise di Lecce, presieduta dal presidente Roberto Tanisi, nei confronti di sei degli otto imputati, di cui due assolti, nel processo per la morte di Simone Renda, il turista leccese di 34 anni morto il 3 marzo 2007 per le torture inflitte nel carcere messicano di Playa del Carmen. Gli imputati sono tutti funzionari dello Stato messicano, giudici qualificatori, poliziotti e dirigenti del carcere. I sei, sono stati condannati per concorso in omicidio volontario e per violazione dell’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Le condanne più pesanti, a 25 anni, sono state inflitte dai giudici di Lecce al giudice qualificatore Hermilla Gonzales e al vice direttore del carcere Pedro May Balam. I giudici hanno imposto il risarcimento dei danni in favore delle parti civili da liquidarsi in separato giudizio e hanno assegnato una provvisionale di 150.000 euro per Cecilia Greco e di 100.000 euro per Gaetano Renda, rispettivamente madre e fratello della vittima.
“Sono stata determinata, dovevo andare fino in fondo, nonostante tutti mi dicessero di lasciare perdere. Hanno avuto coraggio anche la Procura di Lecce, i miei avvocati, a credere in me. Perché non è stato facile andare contro uno Stato”. Così Cecilia Greco ha commentato la sentenza di condanna. “E’ una grande vittoria – ha aggiunto la Greco – una grande soddisfazione. Sono contenta che giustizia sia stata fatta. Siamo in un Paese dove la giustizia può essere lenta, ma bisogna avere determinazione perché alla fine, come oggi, risulta essere efficace. Questa sentenza – ha concluso la madre di Renda – dimostra la piena responsabilità dello Stato messicano, ma quello che mi sento di dire in questo momento è che il mio pensiero va a tutte quelle madri che hanno visto i propri figli uccisi da persone in divisa“.
Simone Renda fu arrestato due giorni prima del decesso dalla polizia turistica messicana con l’accusa di ubriachezza molesta e disturbo della quiete pubblica, e rinchiuso in una cella di sicurezza. In realtà Simone doveva partire per l’Italia ma quella mattina non si svegliò e quindi non liberò la stanza all’ora prevista. Il personale dell’albergo entrò nella sua stanza con il passepartout e a quel punto Renda, consapevole di aver perso l’aereo, si alzò in forte stato di agitazione, uscendo in boxer nel corridoio dell’albergo, urlando. Spaventato, il personale dell’albergo chiamò la polizia. Simone venne arrestato in evidente stato confusionale e, al momento del fermo, il medico in servizio presso il carcere municipale gli aveva diagnosticato un grave stato clinico dovuto a ipertensione e un sospetto principio d’infarto, prescrivendo immediati accertamenti clinici in una struttura ospedaliera. Inspiegabilmente, però, le richieste del medico non furono ascoltate e il turista salentino fu trattenuto in stato di fermo senza ricevere assistenza sanitaria, abbandonato a se stesso. Senz’acqua e senza cibo, chiuso in una cella per 42 ore, morì disidratato.