Una sentenza animata da un “singolare furore demolitorio”, “estremamente lacunosa” e “piuttosto confusa”. E poi “argomentazioni spesso prive di una reale motivazione”, con molteplici “incongruenze” e “palesi contraddizioni”. In una frase, una decisione “sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente”. Sono le pesantissime contestazioni avanzate dalla procura di Palermo nei confronti delle motivazioni utilizzate dal gup Marina Petruzzella per giustificare l’assoluzione di Calogero Mannino. Accusato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato insieme ad altre undici persone (boss mafiosi, politici e carabinieri), l’ex potente ministro democristiano aveva deciso di farsi processare con il rito abbreviato e il 4 novembre del 2015 aveva incassato un’assoluzione “per non aver commesso il fatto”.

Anche Lo Voi firma l’appello – Secondo la ricostruzione della procura, Mannino temendo per la sua vita aveva dato l’input per quella che sarebbe poi diventata la Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Per depositare le motivazioni della sua assoluzione il giudice Petruzzella aveva dunque impiegato quasi un anno intero. E adesso ricorrendo in appello contro quella decisione, i pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene – ma l’atto è firmato anche dal procuratore capo Francesco Lo Voi – sottolineano che “la singolare durata di gestazione dell’elaborato poteva apparire giustificata dalla complessità determinata dalla necessità di enucleare la sola posizione processuale di Mannino dal contesto generale del processo originario, nel quale le posizioni degli imputati sono costruite nei capi di imputazione con una reciproca interdipendenza e in stretta connessione”. E invece, alla fine “le aspettative maturate durante la lunga attesa sono state tradite da una motivazione che è risultata estremamente lacunosa, piuttosto confusa nella ricostruzione dei fatti e priva di argomenti di valutazione critica realmente collegati alle emergenze processuali prospettate dall’accusa”.

“Furore demolitorio e macroscopiche incongruenze” – È soltanto una delle stoccate lanciate dagli inquirenti alle argomentazioni usate dal giudice per assolvere Mannino. “La sentenza impugnata appare percorsa da un singolare furore demolitorio, teso non soltanto alla analisi della posizione dell’imputato, delle sue condotte e del suo apporto causale nella determinazione dell’evento posto a base del capo di imputazione, ma sostanzialmente determinato a smantellare la ricostruzione dei fatti prospettati dall’accusa con argomentazioni spesso prive di reale motivazione e, perciò, apodittiche”, esordiscono i pm nelle 39 pagine utilizzate per impugnare l’assoluzione di Mannino. Una decisione che per la procura sarebbe segnata da due principali e macroscopiche incongruenze. “La prima – scrivono – si coglie nella palese contraddizione logica tra la motivazione (interamente volta a smantellare la sussistenza del fatto) e la formula assolutoria prescelta (per non aver commesso il fatto come ascrittogli), formula che evidentemente postula il convincimento, da parte del giudicante, che, pur in presenza del ‘fatto di reato’ così come contestato, è risultata incompleta la prova del consapevole contributo causale del singolo imputato alla realizzazione di quello stesso fatto”. Come dire: se Mannino è stato assolto per non aver commesso il fatto – che quindi si presuppone essere stato pur commesso da qualcuno – perché allora nelle sue motivazioni il giudice prova a smontare totalmente il quadro generale della Trattativa? “La seconda osservazione – proseguono sempre i pm – attiene al fatto che la sentenza, di circa cinquecento pagine totali, si riduce, qualora se ne individuino le sole parti effettivamente valutative, a poco più di venti pagine. Tutto il resto della sentenza si esaurisce in una asettica trascrizione di altre sentenze emesse da altre autorità giudiziarie. La sentenza, in altri termini, è sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente”.

“Brusca parlò subito del papello” – Quindi i magistrati del pool Stato – mafia si dedicano a smontare le contestazioni del gup. A cominciare dalle dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca, che per il giudice “ad un certo punto prese ad arricchire i suoi resoconti di elementi eclatanti, congetture e sintesi, anche confuse e di difficile comprensione, anche per gli stessi inquirenti che lo interrogavano”. “In merito alle superiori affermazioni – è la contestazione dei pm – si rileva innanzitutto che la questione della progressione dichiarativa di Brusca può valere al più per i riferimenti a Mancino e Dell’Utri (fatti dopo il 2001), ma non certo per le questioni della trattativa con i carabinieri e del “papello”, di cui Brusca ha parlato praticamente da subito (fin dai suoi verbali del 96/97), costringendo Mori e De Donno alle prime e parziali ammissioni su questo tema (tema che, prima di Brusca, i predetti non avevano mai rivelato, né in dichiarazioni, né in relazioni di servizio o atti documentali)”.

“Il papello è una fotocopia perché l’originale è andato a Mori” – Petruzzella aveva poi definito proprio il “papello”, e cioè il foglio di carta che conteneva le richieste di Cosa nostra allo Stato consegnato da Massimo Ciancimino ai magistrati, come “frutto di una grossolana manipolazione”. Il motivo? Il figlio di don Vito “lo ha fornito ai pm solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile”. “È del tutto evidente – replicano invece i pm – che, se l’originale papello fu scritto dai sodali di Riina e consegnato dal dottor Nino Cinà a Vito Ciancimino, affinché questi lo recapitasse ai carabinieri (Mori e De Donno) con i quali era in corso la trattativa, esso deve essere stato consegnato in originale (che quindi, con tutta evidenza, non sarebbe potuto essere nella disponibilità di Ciancimino), mentre, per testimoniare il proprio ruolo o per altri fini, Vito Ciancimino ha fotocopiato il papello”.

“Mancino mentì per paura? Allora abroghiamo la falsa testimonianza” – Motivando l’assoluzione di Mannino, poi, il gup si era anche occupato della posizione di una altro ex ministro, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza nel processo attualmente in corso davanti alla corte d’assise. “La reticenza di Mancino – scriveva Petruzzella – in considerazione dal suo scarso peso indiziario specifico e considerata la dimensione di perpetua esplorazione e di sospetto che ha accompagnato l’indagine, potrebbe essere ragionevolmente riferibile ad un suo stato d’animo di timore”. A questo punto la replica dell’accusa sfiora l’ironia. “Restando al passaggio citato – scrivono i pm – Mancino mente perché ha paura dell’indagine (!). Una giustificazione del genere, ove condivisa, comporterebbe l’abrogazione di fatto nell’ordinamento giudiziario italiano dei reati di falsa testimonianza e di favoreggiamento, visto che il motivo sotteso a questi reati è – sempre – la volontà di occultare informazioni per paura di ripercussioni processuali per sé o per altri”. La parola passa adesso alla procura generale che dovrà rappresentare l’accusa nel processo di secondo grado all’ex ministro della Dc.

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