Paolo Gentiloni, ex ministro degli Esteri, da quando è diventato il nuovo presidente del Consiglio ha dovuto da subito affrontare nuove critiche. La stampa straniera in particolar modo “The Guardian” parla di un inizio incerto in un articolo dal titolo “New Italian PM faces criticism over ‘puppetmaster’ Renzi”. Anche se Renzi, che è ancora il segretario del Partito democratico, si è dimesso dalla carica di primo ministro, la sua ombra incombe sulla testa del nuovo premier. Nel frattempo alla guida del Ministero degli Esteri Gentiloni ha ceduto il passo ad Angelino Alfano, ex ministro degli Interni, che non ha perso tempo per farsi riconoscere con una eurofiguraccia per il suo cattivo inglese tanto che su internet spopolano già dei corsi di inglese per tutti a cura di Alfano.

E così senza rigor di logica succede allora che i ministri degli Esteri hanno di fatto abbandonato la politica estera nelle mani dei diplomatici, i quali alla fine, attraverso le piccole cose di tutti i giorni, non si limitano a eseguire direttive politiche, bensì costruiscono una loro politica. Il diplomatico italiano all’estero gode così di una formidabile fortuna: non è oberato né appesantito, può liberamente, o quasi, inventarsi una sua politica nei confronti del paese in cui è chiamato a operare. Le cattive figure restano e inducono il diplomatico ad uno strano gioco delle parti: egli cerca di farsi considerare rappresentante di un’Italia che appaia diversa e presuntivamente migliore di quella espressa dai politici.

Un ambasciatore di vecchia data come Luigi Vittorio Ferraris parla di “un’arte che la diplomazia italiana ha sviluppato ampiamente e con successi: il peso dell’Italia all’estero è maggiore di quanto la sua classe politica giustificherebbe; e ciò grazie ad una consumata arte di rappresentazione sino alla falsificazione – a fin di bene certo – della realtà, in cui noi diplomatici siamo diventati espertissimi”. Quello che si evince in maniera inequivocabile è sicuramente la “petitesse italiana” che si candida ad ospitare a Taormina il G7. Su questo aspetto credo abbia ragione Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, quando sostiene che: “Siamo afflitti dal complesso della dining power: l’importante è avere un posto al tavolo d’onore, anche se non abbiamo nulla da dire (ma alla fine paghiamo il conto quanto e più di chi decide davvero)”.

I nostri interessi sono da tempo essenzialmente concentrati nell’area euromediterranea, nel giardino di casa nostra che però non abbiamo saputo gestire con l’enorme tegola del problema migranti. Rinunciare ad una strategia di politica estera significa davvero rinunciare a se stessi e allora a quel punto a cosa serve lo Stato italiano. Tipica mentalità italiana è la continua oscillazione nelle scelte, i giri di valzer politici. Un modo tutto italiano per suffragare degli stereotipi negativi sul nostro conto e che impediscono agli altri Paesi, a cominciare da quelli più vicini geograficamente a noi come la Germania, di prenderci sul serio.

In tutto questo bailamme gongola Donald Trump dalla cui agenda politica finora ha di fatto estromesso l’Europa o meglio il Vecchio Continente che non ha mai avuto una sua politica estera comune. Del resto se partiamo dal piccolo e analizziamo la nostra di politica estera alla luce di quanto scritto finora c’è solo da mettersi le mani nei capelli.

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