Era il 27.11.2016, 7 giorni prima del referendum. L’aria che tira, La7: “I parlamentari e le parlamentari devono porsi il tema che se viene bocciata questa riforma, sapendo che non c’è un dopo, debbano prenderne atto. Il giorno dopo, se ha vinto il no (io spero di no, perché è difficile – se guardi il quesito (sic!) – dire no a qualcosa che è utile al Paese) tu ne devi prendere atto; non puoi andare avanti, perché non hai a quel punto l’autorevolezza ed è giusto rimettere il mandato da parte del premier, ma anche con la consapevolezza del Parlamento. Tolgo l’alibi a chi pensa ‘tanto stiamo qui fino al 2018’ perché pensa alla propria sedia, io non penso alla propria sedia”.
Infatti, non pensava alla propria sedia. Pensava alla sua sedia. Due settimane e l’intransigente e coerente Valeria Fedeli è ministro al Miur. Nei mesi di monopolio mediatico a opera del governo Renzi, nel tentativo – fortunatamente sventato – di imprimere nella coscienza degli elettori la necessità di votare Sì il 4 dicembre, la sua è stata tra le voci più presenti.
L’imbarazzo mi trattiene dall’unirmi ai cori di questi giorni; l’imbarazzo di un Paese in cui alla volontà del 60% degli italiani che ha votato No (sottintendendo con quello una serie di altri no, globalmente identificabili con la bocciatura delle politiche sociali del governo) gli epigoni del renzismo – con evidente impulso del grande manovratore, il giovane capo – hanno risposto ribadendo l’irrinunciabilità di chi ha inflitto tre anni di politiche liberiste oltre ogni limite; soprattutto i paladini più rigorosi del disagio e della dismissione definitiva dello Stato sociale, i manomissori della Costituzione (Lotti – alias Renzi, Madia, Boschi, Poletti, Lorenzin).
L’imbarazzo di un Paese in cui si millantano lauree inesistenti, là dove la vergogna non sta nel mancato possesso, ma nella dichiarazione fasulla, espunta dal CV appena l’inganno è emerso. L’imbarazzo di star dietro a una neverending story, disgustosa ma non appassionante: di poco fa la notizia che la ministra non avrebbe conseguito neppure il diploma. Dimissioni? No.
Come le tre scimmiette– non vedo, non sento, non parlo – i protagonisti del Renzi bis sotto mentite spoglie proseguono intrepidi: non è utile né necessario rispondere a critiche dell’opinione pubblica, indignazione per le bugie, sconcerto per la violazione (e non è la prima volta, se si considera il risultato del referendum sull’acqua) della volontà degli elettori.
Alla fine ha pagato solo Giannini, sostituita da una delle più intransigenti jihadiste del Sì, con però un passato sindacale alle spalle: questo ci dice forse qualcosa rispetto alla volontà di un Governo nato per l’assenza di una legge elettorale, che da subito ha però glissato sui tempi della sua scadenza, un’ulteriore palata di fango sui milioni di cittadini che hanno detto No. “La scuola – ha dichiarato il neo-ministro – è il luogo dove si costruisce il futuro dell’Italia, è una responsabilità che cercherò di assolvere con impegno e dedizione, ascoltando e coinvolgendo le migliori forze di quel mondo: gli studenti, i genitori, i lavoratori ed i loro rappresentanti”.
Non hanno ancora capito che non ce la beviamo, dopo anni di falso ascolto e di intenzionale abbattimento della scuola della Costituzione: attacco ai diritti dei lavoratori, al diritto allo studio e all’apprendimento (con tanto di avviamento precoce a un mercato del lavoro che vuole esecutori ignoranti e acritici), alla libertà di insegnamento, alla cittadinanza consapevole.
Alla guida per 10 anni dei lavoratori Tessili della Cgil, il ministro Fedeli – che rivendica con passione il suo impegno nei confronti dell’educazione di genere, a cui addirittura ha strumentalmente attribuito la responsabilità delle critiche ricevute per le false dichiarazioni rilasciate in merito alla sua formazione – potrebbe rappresentare la carta giocata dal Governo per tentare un’improbabile riconciliazione tra mondo della scuola e Pd, un atteggiamento più accogliente verso i sindacati; soprattutto dopo le recenti esternazioni di Renzi sugli errori commessi nel campo della scuola, tra dichiarazioni e sondaggi fai da te.
L’eventuale speranza si rivelerà presto ingenua. Scuola e Paese non possono dimenticare il voto di fiducia dell’estate 2015, nonostante la mobilitazione più significativa della storia della scuola, lo sciopero più partecipato, persino proposte alternative alla sedicente Buona Scuola. Non possono dimenticare il dileggio con cui chi diceva di voler ascoltare ha accolto energie e passione di molti docenti. E nemmeno che il partito in cui milita questa donna dalla dubbia affidabilità si era candidato a governare nel 2013 sulla promessa di abrogare la riforma Gelmini. Che è stata, invece, perfezionata dalla legge 107, ancor più orrenda e vocata ad affossare la scuola della Repubblica.
Fedeli ha sul tavolo le “deleghe in bianco”, ultimo frutto marcio di quella legge, con cui il Governo – che si immaginava di trionfare nel referendum – si preparava a legiferare su temi fondamentali, come 0-6, inclusione scolastica, diritto allo studio, istruzione professionale, revisione del Testo Unico, riforma dell’esame di Stato e valutazione, entro la metà di gennaio. C’è da giurare che ci saranno problemi – oggi, con la schiacciante vittoria del No – a licenziare quei provvedimenti. E di certo, se ciò accadesse, non sarebbe merito della improvvisamente non più laureata (e forse nemmeno diplomata) Valeria Fedeli.