Il “cinema” comico del trio sembra essere giunto ad un punto di non ritorno, un fondo del barile raschiato fino a creare un abnorme buco, rappattumato alla bell’e meglio con personaggi, spunti e idee del loro passato teatrale e televisivo. In buona sostanza: Fuga da Reuma Park è un film inesistente
Parola d’ordine: fuggire. Inteso come scappare a gambe levate dall’ultimo film diretto (e interpretato) da Aldo, Giovanni e Giacomo (e Morgan Bertacca), Fuga da Reuma park. Il loro nono titolo per l’esattezza. E parafrasando la voce dell’altoparlante del Reuma Park, set inguardabile e rattoppato in cui sono state parcheggiate decine di anziani rimbambiti tra cui proprio il celebre “trio”, “questo Natale potrebbe essere l’ultimo”. Almeno si spera. Il loro “cinema” comico sembra essere giunto ad un punto di non ritorno, un fondo del barile raschiato fino a creare un abnorme buco, rappattumato alla bell’e meglio con personaggi, spunti e idee del loro passato teatrale e televisivo. In buona sostanza: Fuga da Reuma Park è un film inesistente. Intanto non esiste una sceneggiatura. O se c’è, deve essere di quei brogliacci generici fatti in modo che la produzione convochi al dato giorno e al dato orario tecnici, maestranze e comparse (i finti vecchietti, alcuni nemmeno sessantenni fanno quasi pietà). Si va avanti a spizzichi e bocconi: Aldo portato a forza dai figli (Ficarra e Picone) al Reuma, l’incontro con Giovanni, l’incontro con Giacomo, la festa di Natale a cui è d’obbligo partecipare per tutti e tre, la fuga dal Reuma. Poi se negli ultimi dieci minuti c’è qualcos’altro, e obiettivamente potevano aggiungerlo anche un po’ prima, ditecelo voi perché noi siamo usciti dalla sala per andare alla toilette. A queste cinque macrosequenze va poi aggiunta la variante sciagurata della sadica infermiera procace finto lager che interrompe ogni due per tre il dialogo (classico, solito, imperituro) del “trio” con una infausta parlata da badante sovietica, per la serie: “ci tocca rimpiangere la Massironi”.
A Fuga da Reuma Park manca poi una regia. Qualcuno o qualcosa che dia un senso a ciò che viene ripreso oltre la casualità di un copione (sorvoliamo sulla messa in scena, roba che nemmeno le web serie nei tinelli di casa). Uno sguardo, un trait d’union, un amalgama, uno straccio di significato all’inquadratura o ad un movimento di macchina, anche se qui sembra viga la staticità catatonica e sciatta dell’unico ciak. Una premura che ci si prende quando si gira un film, giusto così per gradire, per dimostrare che si fa un lavoro con dignità. Roba che il “fuori vista” di Massimo Venier dell’inquadratura su Aldo durante la partita di Tre uomini e una gamba (qui il ripasso dal minuto 1 e 05 in avanti) risulta di una (in)volontaria finezza stilistica che nemmeno Stanley Kubrick.
Pecca poi fondamentale e identitaria fortissima di questo misero titolo natalizio 2016 è il non saper far ridere. Attenzione: nello specifico il non riuscire a far ridere con il materiale sceneggiato per il film. Vi risparmiamo l’analisi d’altri recensori dell’idea surreale delle comiche del cinema muto che dovrebbe soggiacere a questa operazione del Reuma (e qui ci vorrebbe uno “gnic gnac” in sottofondo sonoro per percepire le giunture arrugginite del film). Andiamo al cuore della questione: non riuscendo a smuovere uno dei dodici muscoli del viso per ridere, nemmeno i “levator anguli oris”, Fuga da Reuma Park ha per alcuni l’intuizione, per noi la stridente arrampicata sugli specchi, di appaltare quelle che intuiamo siano stralci teatrali di celebri sketches del “trio” nella loro recente tournée “The best of”.
Chiaro, tutto il materiale d’archivio non c’entra narrativamente un tubo col Reuma, ma fa tanto autocitazione, simulacro del doppio che ancora (ci spiace ricitarlo ma è un capolavoro) in Tre uomini e una gamba aveva il suo esemplare apice nella sequenza in bianco e nero di Aieie Brazorf e il controllore incastonata in un’altra “fuga” narrativa del “trio” con gamba e Massironi ben più intellettualmente stimolante e prosaicamente divertente. E ancora: in soccorso al film che non c’è, i tre comici disseminano lo spazio geriatrico del film (per loro che già viaggiano sui sessanta non c’è nemmeno più il senso del trucco dello sketch dei vecchietti in Su la testa di vent’anni fa) con alcune loro proverbiali maschere come i Sardi e il Rolando del “non ci posso credere”. Scelta che mostra ancora di più il fiato cortissimo di una stitica evacuazione cinematografica. L’ulteriore sequenza della fuga dal Reuma dei tre protagonisti che attraversa una vera Casa degli Orrori, dove da dietro porte e angoli tra vampiri e scheletri sbuca perfino Tafazzi, attesta il definitivo cupio dissolvi di una brillante proposta di comicità teatrale che applicata di nuovo al cinema a vent’anni dall’esordio in sala distrugge ogni bel ricordo di Aldo, Giovanni e Giacomo. A proposito l’altra sera, per caso, a Zelig, Giovanni ha fatto una camminatina di qualche metro da cammello. Non c’è bisogno di sottolinearlo: faceva parecchio ridere. Ma allora ragazzi, Fuga dal Reuma Park chi ve l’ha fatto fare?