C’è un’anomalia tutta italiana sugli introiti dei laureati. Dopo il recente sorpasso della Turchia, siamo praticamente il paese con meno laureati di tutta l’Ocse: con 18 laureati su 100 abitanti (fascia d’età 25-64) contro una media del 35%, solo il Messico fa peggio di noi. Con una tale penuria ci si aspetterebbe, secondo le ineffabili leggi della domanda e dell’offerta, che gli stipendi dei laureati siano significativamente più alti dei lavoratori con titoli di studio inferiori… ma i dati smentiscono questa ipotesi: anche nella classifica dei guadagni relativi i laureati italiani militano nella parte bassa della classifica, vicino a paesi ove le schiere di laureati sono decisamente più numerose.
A spiegare questa anomalia si sono sbizzarriti analisti di ogni provenienza. La tesi che trova più spazio nel dibattito pubblico è quella proveniente dall’area confindustriale: la colpa è dell’università italiana che non forma in maniera adeguata i laureati per le esigenze del mondo del lavoro (il leggendario mismatch). Per quanto sia una tesi molto reclamizzata, è facilmente smentita dal grande successo professionale che i nostri laureati incontrano all’estero: la “fuga dei cervelli” dimostra, infatti, l’incapacità del sistema produttivo italiano ad assorbire personale altamente qualificato, il che spiega peraltro come mai il valore aggiunto del dottorato di ricerca rispetto alla laurea sia praticamente nullo.
Però è anche vero che la maggior parte dei lavori svolto dai laureati, in Italia come altrove, non richiede un’eccellenza spinta: una buona parte del mistero rimane irrisolto e la tesi del mismatch resta quindi in voga per mancanza di spiegazioni alternative. Eppure, ragionando, qualche indizio lo si può trovare: consideriamo ad esempio la professione dell’insegnamento. L’insegnante è tipicamente il lavoro più diffuso tra i laureati, quindi il suo stipendio, sempre secondo le leggi del mercato, dovrebbe influenzare significativamente il livello stipendiale di tutti i laureati. Se lo stipendio dell’insegnante è alto, gli altri datori di lavoro dovranno offrire emolumenti comparabili per riuscire ad assumere personale preparato, mentre se lo stipendio dell’insegnante è basso gli altri datori di lavoro potranno ottenere personale preparato anche pagando stipendi più bassi.
Proviamo quindi a guardare i dati per verificare se c’è una qualche correlazione tra stipendio degli insegnanti e vantaggio relativo della laurea. Ovviamente una comparazione statisticamente significativa tra nazioni molto diverse richiederebbe un lungo lavoro di ripulitura dei dati, quindi limitiamoci a confrontare tra loro i paesi dell’Europa Occidentale dell’area Euro, giusto per avere un’idea della validità di massima dell’ipotesi, senza alcuna pretesa di scientificità.
A prima vista, quello che colpisce nel confronto è una certa similitudine tra le due diverse classifiche. In entrambe, ad esempio, i paesi scandinavi sono nelle ultime posizioni e in generale a salari agli insegnanti più elevati corrispondono effettivamente dei differenziali maggiori.
Una parte importante della risposta all’anomalia italiana potrebbe quindi venire dagli stipendi relativamente bassi erogati dallo Stato, sia agli insegnanti che agli altri suoi dipendenti laureati. Chissà, forse varrebbe la pena investigare più a fondo questa ipotesi, invece di lanciarsi in avventurose quanto strumentali interpretazioni tese solo a screditare la qualità della formazione universitaria italiana nel suo complesso.