Ci sono tanti modi di raccogliere una storia, lasciar fare ad essa è forse il migliore. Mi trovo a Bogotà, in Plazoleta del Rosario, all’estremità della Candelaria. E’ primo pomeriggio, arrivo in anticipo a un appuntamento perché ho voglia di sedermi a gustarmi una birra, noto le ampie vetrate di un caffè che parlano di un dentro come immacolato su di una ferma atmosfera, ed evidentemente i miei occhi se ne fanno affascinare e decido di entrare in questo Café Pasaje.
Vago fra i tavolini rotondi e mi siedo dalle parti di una delle due vetrate. Il locale è abbastanza ampio, le sedie rosse, i poster, le pubblicità, gli stendardi al soffitto, un orologio incorniciato in un ottagono di legno, e poi ancora il legno alle pareti, a incartare ogni cosa, avventori compresi, a renderci di sapore antico. In certi luoghi è come se tutto, desideri compresi, fosse “nel retro”. Mi guardo intorno. Ci sono poche persone, un gruppo di ragazzi laggiù, un uomo con due bottiglie di birra accanto al proprio gomito, con la testa perennemente rivolta al televisore appeso in alto, sulla parete, ci dev’essere una partita.
Si siedono quasi di fronte a me, sotto alcuni dei tanti poster oggi si direbbe “vintage” sulla Colombia, il caffè, la pizza, un inventario delle caffettiere di tutta la storia dell’umanità, e sotto tutto questo, appena sopra la testa di lui, come a incorniciarlo, la frase che sta al centro dei pensieri di tutti i pensieri che passano per il Café Pasaje, semplice, naturale come la luce che entra dal cielo del mediodìa e si prende meno di quel che lascia, persino abusata, ma veramente poco riflettuta, che dice las mejores cosas de la vida toman tiempo.
A questo punto del viaggio e del pomeriggio, e soprattutto di questa caffetteria, ti pare di capire che ogni quadro o panorama, od ogni angolo o per intero questo mondo, non sono nulla, se non il racconto che se ne fa. E che questa fotografia non è la fotografia del Café Pasaje, ma di quello che ho visto io di esso, e che per fare questo, per rendere vera questa storia, e tutte quelle sedie, e l’aria dolce e adombrata di quell’uomo sotto tutti i caffè della Colombia, è stato necessario tomar tiempo.
Un tempo fatto dei chilometri e delle ore, e dei minuziosi ritagli di esso che ho voluto perpetrare tutti questi mesi, per raccogliere per intera l’esigenza di questo viaggio. Già… quella frase, quelle parole, quell’uomo e quella donna – lui le tiene un braccio prima di farla andar via, una volta fuori dal locale, deve avere cose da dirle ancora, perché possa finalmente dimenticarle – sono in questo modo e non in un altro solo perché c’è questa piccola penna che ora ve le sta raccontando, ovunque siate. E che quell’ovunque, al contempo, non sarebbe da nessuna parte, se non ci fosse ciascuno di voi a viverlo, in un modo, uno solo possibile.
Perché quella fotografia e queste parole, dunque? Perché per ogni fotogramma della vita, e ogni chilometro del viaggio, è necessario tomar tiempo. La differenza fra le cose importanti e quelle lascive, sta esattamente nella luce cadenzata insinuata fra quelle parole. La lascivia non costa nulla. L’istante che dice quello che siamo, invece, sia esso un click, una pennellata, o un’intera esistenza, ci prenderà tutto il tempo che abbiamo. E che non potremo utilizzare per altro, in alcun caso. Ci sono tutte le storie che vogliamo, in quella semplice e apparente “unica” fotografia. Le altre le lascio scovare a voi, a tutti coloro che vorranno. Io mi sono occupato di raccontarne una, una fra le possibili, nessun’altra: questa.
Le cose importanti sono tutto il tempo che abbiamo a disposizione. Sta a noi, della nostra opaca fotografia, farne l’unica storia possibile, e raccontarla. Perché non nasca e muoia già oblio. Anche se e quando costerà fatica. Come stanno facendo ora quella donna e quell’uomo, ormai fuori dal caffè – voi non li potete più vedere – trattenendosi per un braccio ancora un istante. Lo fanno perché non si può lasciar andare prima d’aver vissuto, e non si può vivere per sempre, se non avendolo raccontato.