Quando nel 2014 il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni fu arrestato per l’inchiesta sul Mose, Luca Lotti – allora sottosegretario a Palazzo Chigi, ora ministro – si presentò a Livorno per la campagna elettorale delle Comunali e riuscì a dire all’Ansa: “Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, contrariamente a quello che ho letto stamani, non è iscritto al Pd. Non ha tessera. E’ un sindaco indipendente“. Tutti si aspettavano le risate finte come in una sit-com, invece lo disse serio, intento, proprio con tutto il tono di uno che sta al governo.
La sindaca di Roma Virginia Raggi è riuscita ora a pareggiare quella performance. Ha passato questi mesi quasi esclusivamente a puntellare Raffaele Marra come una canadese, mentre anche l’usciere le ripeteva di toglierlo di mezzo. Ora, dopo che i carabinieri hanno accompagnato Marra a Regina Coeli, si è presentata ai giornali e ha scandito – con la consueta posa da dettato di seconda elementare – che Marra è uno dei 23mila dipendenti e che il suo braccio destro sono i romani, il che – come appare chiaro – è una frase vuota di significato.
Esiste, dunque, il punto di non ritorno per un politico: quando nega l’evidenza, camuffandola con mezze verità. E’ vero, infatti, che Orsoni non era iscritto al Pd, però era il sindaco voluto, fatto eleggere e sostenuto dal Pd. E’ vero che Morra è un dipendente del Campidoglio, ma è stato chiamato dal sindaco nel proprio ufficio di gabinetto e poi trasferito a capo del Personale, cioè l’ufficio forse più importante dell’amministrazione.
In sintesi: è chiaro che la responsabilità penale è individuale, ma è penoso che quella politica diventi sempre improvvisamente orfana.
Gianni Alemanno, per esempio, quando era sindaco di Roma, era circondato – come in una scena western – da una tribù che aveva rapporti con Massimo Carminati e gli altri di Mafia Capitale: l’ex ad di Ente Eur Riccardo Mancini, l’ex ad di Ama Franco Panzironi, perfino l’ex capo della segreteria Antonio Lucarelli. Per giustificarsi Alemanno raccontò che un anno prima aveva letto l’inchiesta dell’Espresso sui Re di Roma e a quel punto aveva “messo in guardia” i suoi e quelli gli “giurarono che non avevano a che fare con lui”. E a lui bastò così. “Esistono i collaboratori infedeli – aggiunse Alemanno – Non si può pensare che un sindaco conosca tutto dei suoi uomini”. Secondo questo ragionamento, quindi, resta da capire come un sindaco debba riempire il suo tempo, se non ha più nemmeno il peso e la responsabilità di dover scegliere bene chi lavora con lui. Cruciverba, uncinetto, decoupage? Alemanno magari uscirà assolto nel processo, ma con quelle due frasi ha firmato l’autocertificazione che dice che non è capace di fare il sindaco.
E quasi sempre la negazione dell’evidenza dei fatti è la formula con cui si trasforma il bel collaboratore fidato e strettissimo a figlio di nessuno, piovuto da Giove, eredità delle amministrazioni passate, rifiuto ingombrante da abbandonare sul ciglio della strada.
La Storia ancora si sganascia, per esempio, a risentire Bettino Craxi che dopo l’arresto del presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa lo definisce “un mariuolo che getta lombra sul partito”. Quell’arresto, come sanno tutti, sarebbe invece stato il primo di Tangentopoli. Piú volte assessore, Chiesa era vicinissimo al sindaco Paolo Pillitteri, a sua volta cognato di Craxi.
Mancavano meno di tre settimane, invece, alle Europee del 2014 quando Claudio Scajola fu arrestato perché accusato di aver agevolato la latitanza di un altro di Forza Italia, Amedeo Matacena. Pochi giorni dopo Silvio Berlusconi disse che Scajola “non è nel nostro partito da anni” e che come Nicola Cosentino non era stato inserito tra i candidati alle elezioni. Il non detto è che per dieci anni Scajola era stato più volte ministro e altrettante volte dimissionario (a calci) perché incapace sia nelle forme (la scorta al “rompicoglioni” di Biagi) sia nella sostanza (la gestione del G8 di Genova come capo del Viminale). Scajola era rimasto parlamentare di Forza Italia fino al 2013 così come Cosentino che in questo modo per 4 anni (quattro) si è salvato dall’arresto.
Quando il politico nega l’evidenza e racconta al mondo la sua storiella, insomma, il rischio è che perda – o abbia già perso – contatto prima con il senso della realtà e poi con quello del ridicolo. L’arroganza, infatti, di raccontare “un’altra verità” a dispetto della storia e a volte perfino della cronaca più recente per gli elettori-cittadini ha il retrogusto amaro della presa per il culo (se lo dice il vicepresidente della Camera, vuol dire che si può dire).
La politica in passato è riuscita non solo a negare l’evidenza a parole, ma addirittura usando la Camera dei deputati. Il 3 febbraio 2011 Montecitorio fu trascinata al punto più basso della sua storia quando 314 deputati votarono una relazione che sosteneva la tesi secondo la quale Berlusconi era davvero convinto che Ruby Rubacuori fosse la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak.
Negare l’evidenza, nell’immediato, paga. Lotti è incredibilmente diventato ministro, la Raggi resterà sindaco per altri 4 anni e mezzo (e ai Cinquestelle non resta che pregare un numero considerevole di divinità). Paga anche perché la memoria di molti dura dalla notte alla mattina, è la memoria di elettori-cittadini che – come in tutte le stagioni politiche – si trasformano in tifosi: i renziani, gli anti-renziani, i grillini, gli anti-migranti.
Negare l’evidenza dunque nell’immediato paga, ma alla lunga se diventa un’abitudine, rischia di far perdere il patrimonio più prezioso per chi fa politica: essere credibile. Piegare la realtà a una storia di comodo vuol dire raccontare storielle agli altri, ma anche raccontarsele. Negare l’evidenza vuol dire negare i fatti anche a se stessi (e a un certo livello c’entra un po’ con la psicanalisi). Alla fine, in ogni caso, come può testimoniare l’ex presidente del Consiglio (che credeva a un mondo che non c’era), prima o poi arriva il traguardo. Ed è un muro.