I dati Inps dicono che più dell’80 per cento dei congedi parentali è ancora utilizzato dalle donne. E la maternità comporta forti penalizzazioni in termini di reddito e di carriera. L’allungamento del congedo obbligatorio dei padri permetterebbe di ridurre le disuguaglianze sul mercato del lavoro.
di Enrica Maria Martino (da www.lavoce.info)
Più giorni per il congedo di paternità
La legge di bilancio approvata dalla Camera lo scorso 28 novembre ha istituito, in via definitiva, due giorni obbligatori di congedo di paternità, fruibili entro i primi cinque mesi di vita del figlio. Il testo conferma dunque la durata del congedo, già raddoppiata nel 2016 rispetto al giorno introdotto in via sperimentale per il triennio 2013-2015 dalla legge 92/2012, e prevede l’innalzamento a quattro giorni nel 2018.
Si tratta di un passo avanti nella direzione della proposta di congedo obbligatorio di paternità di quindici giorni, presentata al parlamento lo scorso anno e promossa anche su lavoce.info (qui e qui). L’intervento di Tito Boeri a favore della proposta in occasione del convegno organizzato da Elle Active! a inizio novembre ha riacceso il dibattito sulla necessità di politiche familiari che puntino a una maggiore condivisione della genitorialità.
Le motivazioni sono molteplici e una delle più citate è la necessità di ridurre il gender pay gap (il divario salariale fra uomini e donne) causato dal fatto che la responsabilità dei compiti familiari – e quindi la penalizzazione a livello lavorativo – ricade ancora in prevalenza sulle donne. Osservando i dati Inps, infatti, emerge che più dell’80 per cento dei congedi parentali è fruito da donne (un dato comunque in calo costante dal 2005, quando solo il 12 per cento delle domande di congedo proveniva da uomini), spesso anche nelle coppie in cui il partner guadagna meno.
I dati Inps sulla maternità
Uno studio preliminare dei dati amministrativi dell’Inps, svolto all’interno del programma VisitInps, permette di stimare l’effetto della nascita di un figlio sulle carriere dei genitori e quantificare così la penalizzazione femminile in termini di reddito da lavoro. Le analisi che seguono si riferiscono alle lavoratrici dipendenti nel settore privato con almeno un episodio di maternità tra il 2008 e il 2012.
La figura 1 mostra cosa accade al reddito da lavoro di una donna intorno alla nascita del figlio, ponendo a zero il reddito del mese precedente all’inizio del congedo di maternità: dopo il crollo vicino al 100 per cento nei mesi di congedo obbligatorio (durante i quali l’Inps corrisponde un’indennità pari all’80 per cento del salario), il ritorno ai livelli precedenti la maternità avviene solo dopo circa venti mesi, rispecchiando un lento rientro al lavoro, la riduzione delle ore lavorate e il rischio di lasciare o perdere la propria occupazione. La probabilità di lavorare con un contratto a tempo indeterminato o a tempo pieno, infatti, si riduce, dopo 36 mesi, rispettivamente dell’11 e del 16 per cento, mentre in media i giorni lavorati diminuiscono del 5 per cento.
Figura 1 – Reddito da lavoro delle madri
Se si considera l’andamento crescente del reddito nei tre anni che precedono l’inizio del congedo di maternità (la linea retta nel grafico), lo scenario si aggrava: oltre al lento ritorno ai livelli precedenti la maternità, la nascita del figlio apre un divario fra il reddito percepito dalla donna e quello che avrebbe ricevuto in assenza della nascita – ipotizzando un trend costante – e il divario non si colma nel tempo.
La figura 2 rappresenta tale gap, riportando la perdita reddituale in termini percentuali: dopo venti mesi, la donna percepisce stabilmente circa il 12 per cento in meno rispetto al reddito potenziale in assenza della nascita del figlio. La penalità reddituale raddoppia (intorno al 20 per cento dopo sedici mesi) fra le donne senza un contratto a tempo indeterminato. Ripetendo la stessa analisi per i padri, non emerge alcun impatto negativo sulla carriera lavorativa né sul reddito.
Figura 2 – Perdita reddituale dall’inizio del congedo di maternità (percentuale)
Sono dunque necessarie politiche familiari che riducano il costo della maternità, per incentivare un trattamento paritario delle lavoratrici e incoraggiare l’occupazione femminile: sempre secondo i dati Inps, infatti, l’11 per cento delle donne lascia il proprio lavoro a un anno dalla maternità e il 20 per cento dopo due anni, un dato in linea con i risultati dell’Indagine campionaria delle madri e delle nascite dell’Istat del 2012 e in lieve aumento rispetto alle precedenti edizioni dell’indagine (2002 e 2005).
L’allungamento del congedo obbligatorio di paternità risponderebbe a più obiettivi. Diminuendo la disparità dei costi di assunzione di una donna rispetto a un uomo, ridurrebbe le disuguaglianze sul mercato del lavoro legate alla genitorialità. Riconoscendo e valorizzando il ruolo del padre, favorirebbe un cambiamento culturale verso la condivisione dei compiti familiari, come avvenuto nei Paesi scandinavi, con effetti positivi sullo sviluppo dei figli e nessun impatto negativo sulla carriera dei padri.
L’urgenza di interventi strutturali e innovativi sulle politiche familiari emerge da più parti, per incoraggiare le nascite ai minimi storici, combattere la povertà infantile, che colpisce circa un minore su tre secondo l’ultimo rapporto di Save the Children, ed eliminare le disuguaglianze di genere, “puro scandalo” secondo Papa Francesco.