A pochi giorni dalla libertà condizionale concessa da Papa Francesco a monsignor Balda, sono state depositate le motivazioni della sentenza di condanna dello scorso 7 luglio. Per i giudici ci fu una fitta rete di rapporti lavorativi e personali, grazie ai quali se da una parte “non è credibilmente individuabile l’esistenza di una struttura associativa criminosa”, dall’altra emerge la “responsabilità criminale” della divulgazione delle documentazione “certamente rimarchevole e ragguardevole per la convenienza e la funzionalità della Santa Sede” e di “natura riservata” da parte di Lucio Angel Vallejo Balda, principale protagonista dello scandalo di Vatileaks 2, insieme a Francesca Immacolata Chaouqui, unica altra condannata alla fine del lungo dibattimento e di cui si rileva la “complicità certa”.
Vallejo Balda, ex segretario della Prefettura degli Affari economici e della Commissione Cosea sulle finanze della Santa Sede, insieme a Francesca Immacolata Chaouqui, componente della stessa Cosea, del dipendente vaticano e della Commissione Nicola Maio, e dei giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi per la fuga dei documenti riservati sulle finanze vaticane finiti più o meno nei libri “Avarizia” e “Via Crucis”. Il processo ha portato alla condanna a 18 mesi per Balda, condanna anche per la Chaouqui, la cui pena a 10 mesi era stata sospesa per cinque anni nel momento della pronuncia della sentenza, il 7 luglio scorso. Assoluzione, invece per Di Maio, Nuzzi e Fittipaldi.
In particolare, il dispositivo con le motivazioni (depositato dal cancelliere del tribunale vaticano il 22 dicembre) ha ribadito il “difetto di giurisdizione” rispetto ai due giornalisti italiani.
In relazione alle carte di monsignor Vallejo Balda, comunque, il Collegio ha reputato che la documentazione “non sia tale da cagionare una essenziale compromissione della vita e della edificazione della Chiesa e dello Stato, o un sostanziale sconvolgimento del bene comune tanto dell’una quanto dell’altro o una lesione determinante dei diritti inviolabili sia del fedele sia del cittadino come singolo o come partecipe di un formazione sociale necessaria all’attuazione della sua personalità, così che la sua rivelazione e la sua divulgazione non incide sulla difesa degli ‘interessi fondamentali’ della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano statuita nel secondo comma dell’art. 116 bis codice penale”. L’articolo in questione (inserito nella legge promulgata da Papa Francesco nel luglio del 2013) prevede che “chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni o con la multa da euro mille ad euro cinquemila”. Il secondo comma, invece, incrementa la pena: “se la condotta ha avuto ad oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni. Se il fatto di cui al comma precedente è commesso per colpa, si applica la pena della reclusione da sei mesi a due anni”.
Riguardo alla Chaouqui, gli atti “evidenziano una complicità certa” della donna “nel delitto perpetrato” da mons. Balda, soprattutto “si rileva una facilitazione alle attività di rivelazione e di divulgazione dei documenti, in particolare a cagione del rapporto posto in essere tra mons. Vallejo Balda e i giornalisti”.
Per la Chaouqui la sentenza del tribunale vaticano ha tenuto presente “la sua condizione ecclesiale di membro della Cosea ed il suo stato di persona incensurata, il comportamento processuale, che, pur non del tutto lineare, fin dal momento della sua prima comparsa davanti all’Autorità di polizia giudiziaria, è stato disponibile e collaborativo e che, specie nella sua dichiarazione del 7 luglio 2016 anteriore alla pronuncia del dispositivo della sentenza, ha mostrato rammarico ed una certa resipiscenza per la propria condotta relativa ai fatti di causa”. Inoltre, il “Collegio reputa che nei confronti di Francesca Immacolata Chaouqui in relazione al delitto di cui all’articolo 116 bis codice penale, non si abbia quella prova certa che, invece, si è consolidata per quanto attiene alla perpetrazione di quel medesimo reato in rapporto alla complicità disciplinata e punita dal primo comma dell’articolo 64 codice penale”.