Il Tribunale di Catania ha scritto un provvedimento assolutamente rivoluzionario per un Paese arretrato e conservatore come il nostro. Addirittura ha osato spingersi sino ad affermare che i genitori (padre e madre) siano uguali dinanzi al figlio e che in caso di separazione nessuno possa dirsi preferibile a prescindere.
In una frazione di secondo ha demolito decenni di cultura mammista delle Corti italiane (sia ben chiaro, a prescindere dalla identità sessuale dei giudici), secondo cui la madre è sempre preferibile e il padre sempre deferibile.
In barba a qualsiasi sacro e fondamentale principio di uguaglianza, ribadito da ogni Convenzione internazionale. L’uguaglianza all’italiana. A sessi alterni. Se durante il matrimonio o la convivenza entrambi i genitori si ritengono adeguati, improvvisamente appena si rompe la cristalleria, il padre diviene inadeguato, al più relegato in panchina in attesa di giocarsi qualche minuto allo scadere del tempo o ai supplementari.
Lo dicono i numeri impietosi: circa il 5% dei figli “collocati” presso il padre, circa il 15% dei tempi di frequentazione genitore/figlio riconosciuti al padre, putacaso però gravato il padre anche del 70/80% di spese del mantenimento del figlio. Uno spettatore, lautamente pagante però. Un caso (aberrante) di onanismo genitoriale.
Se pensiamo che solo sino a qualche mese fa la Cassazione (sez. I, 14 settembre 2016, n. 18087) ha certificato la valenza di principi incredibili (e inesistenti nel nostro ordinamento ed altrove), avendo “valorizzato il criterio della cosiddetta ‘Maternal preference’” (ed il trasferimento unilaterale di residenza di un genitore con il figlio, senza il consenso dell’altro, peraltro in una separazione tra due magistrati!). Dalla cui sentenza si è subito elegantemente smarcato il tribunale di Milano (sez. IX, Pres. Amato, Est. Buffone, decr. 13-19 ottobre 2016), che ha evidenziato come, sussistendo il conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio guida sia il superiore interesse del minore non potendo al contrario trovare applicazione il “principio della maternal preference”, in quanto criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e ss cod. civ. e in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della l. 54/2006 sull’affidamento condiviso. Avendo infatti i principi della bigenitorialità e della parità genitoriale accantonato il criterio della “maternal preference” per mezzo del “gender neutral child custody laws“, ossia normative chiaramente incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque nella fattispecie essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore.
Pertanto il genere non può determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale. Un principio talmente pacifico e indiscutibile da essere costantemente violato dai tribunali italiani, in alcuni dei quali si trovano già verbali d’udienza prestampati con l’indicazione della mamma come genitore collocataria.
A Catania l’ottimo dott. Lima la pensa diversamente. Crede nel principio di uguaglianza. Ed egli infatti scrive (sez. I, ord. 9 dicembre 2016) che esiste un “non confessato pregiudizio di fondo (…) per il quale: – i figli piccoli sarebbero principalmente delle madri; – ai padri verrebbe consentito di esercitare i propri diritti/doveri; – il collocamento naturale dei figli dovrebbe essere presso la madre; – l’affidamento e/o il collocamento presso il padre dovrebbe ritenersi innaturale ed eccezionale e il provvedimento che lo dispone abbisognevole di motivazioni particolari e straordinarie”. Ma ciò è errato perché dall’ordinamento si ricava che “in mancanza di prove del contrario, entrambi i genitori si devono presumere idonei a esercitare le loro responsabilità e a divenire affidatari e/o collocatari dei figli”.
Nella specie poi, il giudice, dopo aver disposto una attenta Consulenza tecnica, ha ritenuto che il genitore più idoneo fosse il padre, così collocando il figlio presso costui.
Segnali positivi che squarciano un velo di ipocrisia. La cataratta giurisdizionale in materia di famiglia.