Cinema

Da Brandon Lee a Carrie Fisher i divi che rivivono nei film per sempre

È il desiderio tutto contemporaneo di rivedere per l’eternità il viso di una star come fosse perennemente viva, ad aver sostituito i chilometri di fila di fan impazzite che nel 1926 affollarono gli isolati attorno al Campbell Funerary Home dove fu esposto il cadavere di Rodolfo Valentino

di Davide Turrini

Cinema miracolo che fa resuscitare i morti. Quando i fratelli Lumiere s’inventarono questo caro trabiccolo dei sogni – a proposito: il 28 dicembre il cinema ha compiuto 121 anni – probabilmente non pensarono al potere taumaturgico che la loro invenzione avrebbe potuto avere nel far tornare in vita le star. Sarà banale ricordarlo, ma in tempi così concitati di set e girato, quando un attore muore in post produzione ci sono già due-tre titoli pronti per la consacrazione post mortem. La povera Carrie Fisher, che non abbondava certo in interpretazioni su grande schermo negli ultimi anni, aveva già concluso le riprese dell’ottavo titolo della saga di Star Wars, in uscita il 14 dicembre 2017, dove ancora una volta ha vestito i panni della principessa Leila.

Ci vorrebbe un paio di binocoli per guardare così lontano nel tempo, o nel magazzino delle major che, lungimiranti, avevano già registrato l’ultimo, il penultimo, e il terz’ultimo afflato per l’icona di turno che se ne va. La fine improvvisa di Anton Yelchin nel giugno 2016 celava già nello scrigno del ricordo postumo le interpretazioni in Star Trek: Beyond e Porto. Senza dimenticare almeno tre titoli che usciranno nel 2017: Rememory, Thoroughbred, We Don’t Belong Here. Quando Philip Seymour Hoffman ci lasciò nel febbraio 2014, era già pronto per la sala l’ultimo film da lui concluso intitolato La Spia. Invece per Hunger Games / Il Canto della rivolta – parte 2, set durante il quale Hoffman morì senza concludere le riprese, il regista Francis Lawrence optò per una soluzione più “rispettosa” del grande attore. Per le due ultime scene di dialogo di Plutarch Heavensbee niente uso di tecniche digitali CGI, ma riscrittura della sceneggiatura e ridistribuzione della parti in scena.

Per Brandon Lee e Paul Walker l’uso massiccio di tecniche digitali computerizzate salvò letteralmente i film che avevano lasciato, non per loro volere, a metà o a pochi giorni dalla conclusione delle riprese. Ne Il Corvo (1994) si utilizzarono sia scarti di altre sequenze che riproduzione digitale dell’icona di cotanto padre Bruce. Per Fast and Furious 7 Walker è stato “reinterpretato” sia da due suoi fratelli come controfigure, sia dalla CGI firmata Weta, e anche da una particolare “digital mask”. Gli esempi della resurrezione, naturale o artificiale, delle star si sprecano: Peter Sellers fu duplicato post mortem in Trail of the Pink Panther (1982) grazie al recupero di scene scartate nei precedenti film della saga; mentre Peter Cushing è tornato in vita sempre nel recente Rogue One del franchise Star wars nei panni di Grand Moff Tarkin grazie alla tecnica “motion capture” (come del resto Leila/Fisher nel medesimo recente film).

È il desiderio tutto contemporaneo di rivedere per l’eternità il viso di una star come fosse perennemente viva, ad aver sostituito i chilometri di fila di fan impazzite che nel 1926 affollarono gli isolati attorno al Campbell Funerary Home dove fu esposto il cadavere di Rodolfo Valentino. L’eterna funzionale riproposizione della vita al posto del cereo ultimo saluto. L’aspirazione all’immortalità dell’essere umano trova il suo compimento filosofico esistenziale nella parabola della star. Dalle maschere funebri dei romani, alle foto/santino del Novecento, fino alla baldanzosa rinascita digitalizzazata di un attore celebre finito senza volere a far danni in qualche film mai interpretato. La memoria sbiadisce e il fotogramma ravviva. Il miracolo del cinema “revenant”, che si compie da qualche anno a questa parte, meriterebbe un serio approfondimento psicoanalitico dove si sfiorano i contorni del mito artistico e si mettono sotto al tappeto i prodromi dell’isteria collettiva. Non è bello all’improvviso ritrovarsi Steve McQueen che guida e promuove una Ford per le strade di San Francisco come fosse una sequenza scartata di Bullitt trent’anni dopo la sua morte? No. Anche perché Steve avrebbe pubblicizzato più volentieri la moto Triumph TT 650 che usò personalmente sul set de La grande fuga. Possiamo giurarlo. Magari con McQueen che conferma con un ologramma.

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