Il 2016 si chiude con nuove inchieste giudiziarie che toccano i vertici amministrativi e politici dello Stato; tutto questo non appare certamente una novità eclatante. E’ dal 1982 che impera questa dialettica pubblica e processuale tra giustizia e politica. In realtà mi viene da pensare che qualcosa sia profondamente cambiato. Un cambiamento derivante dalla richiesta (un po’ giustizialista e un po’ frutto della oramai accettata separazione tra giudizio politico e giudizio della magistratura) proveniente dal “sentire collettivo” circa la necessità che il politico “attinto” da un’indagine si dimetta.
Non interessa giudicare se questa tendenza sia corretta oppure no. E’ interessante, piuttosto, osservare come venga affrontata questa esigenza di “pulizia preventiva” (rispetto al processo) da parte del mondo politico e ciò perché è processualmente nuova (rispetto alle indagini storiche sui rapporti tra politica e vero o presunto malaffare).
Una premessa: da sempre un tema fondamentale del processo penale è come trattare la persona sottoposta a indagine (o processo) e come valutare le sue dichiarazioni. Questo per una ragione fondamentale: è sempre forte la eco costituita dal timore che costui dia delle dichiarazioni di comodo oppure che le sue affermazioni gli vengano estorte o non siano credibili perché provenienti dal soggetto debole e cioè colui che rischia la libertà personale oppure, guardata da un’altra angolazione, perché provenienti da colui che “deve sapere se è colpevole o innocente” e dunque nei confronti del quale il rischio che il suo dire sia ottenuto in modi non congrui è sempre e comunque un aspetto non trascurabile in ogni Stato di diritto (senza pensare alla tortura è già sufficiente adombrare un’eventuale “mira politica” nell’investigatore).
Anche per queste ragioni il tema delle dichiarazioni del sospettato o imputato è assai diversificato nel complesso di norme del codice di procedura penale. Si può dire che nessuna altra dichiarazione vede così tante e diverse ipotesi normative. Esiste l’interrogatorio dell’indagato in carcere, l’interrogatorio dell’indagato libero, l’interrogatorio dell’indagato che si presenta spontaneamente, l’esame al dibattimento dell’imputato e le dichiarazioni spontanee dell’imputato al dibattimento.
Il tema della “volontà popolare” di dimissioni del politico colpito da un’indagine e quello degli strumenti processuali in mano all’accusato per difendersi sono, solamente all’apparenza, mondi distinti. E’ la cronaca di questi giorni a suggerirlo. I politici investiti da un’indagine hanno infatti trovato una soluzione che pare conciliare le diverse esigenze e cioè quella di “farsi sentire” dall’investigatore (eventualmente “sondando” l’indagine attraverso i propri legali) e così ottenendo un sostanziale “via libera” per restare “in sella” oppure per “tornare in sella” alle proprie cariche elettive.
L’intelligenza strategica della scelta sta anche nei risvolti più sottili che sottendono questa sorta di interrogatorio “su richiesta”. A differenza dell’interrogatorio “proposto” dall’accusa, quello in indagine, richiesto dal sospettato (indagato) non presuppone alcun tipo di discovery processuale da parte del pubblico ministero, che può limitarsi a “chiedere” al prevenuto se ha “qualcosa da chiarire”, lasciando a costui la libertà assoluta rispetto ai temi da trattare. E’ facile immaginare che un accusatore che non ha, in prima persona, voluto quell’interrogatorio difficilmente svelerà le sue carte e dunque “il succo” dell’indagine resterà comunque nascosto. Ma per il politico tutto ciò può risultare un ottimo viatico (pubblico) per sostenere una legittima mancanza di elementi che gli impediscano di proseguire nel suo mandato, con l’ulteriore vantaggio (d’immagine) di avere proposto in prima persona di “chiarire i fatti” qualora vi sia qualche elemento a suo carico.
E’ un’altra plastica manifestazione di quanto ho chiamato, in altri interventi su questo blog, col nome di “pop justice“, in contrapposizione alla giustizia mediatica o al cosiddetto “circo mediatico-giudiziario” di qualche tempo fa. Per quest’ultimo, infatti, al centro del rapporto tra media, pubblico e giustizia, vi era sempre e comunque il processo, cioè dire, la sua estensione mediatica, era, in ogni caso, strumentale all’indagine oppure alla difesa, ma, in ogni caso, non sradicava il marketing giudiziario dall’aula del tribunale. Nella pop justice, al contrario, il processo vero e proprio diventa un elemento del tutto secondario, quasi un impaccio successivo (nel tempo) che può ricadere in modo “antistorico” (e dunque sostanzialmente inutile) su una verità pubblica già sedimentata e giocata in un momento pseudo-giudiziario.
Come nell’arte pop laddove, la replica, il poster o l’immagine commerciale dell’opera hanno addirittura un valore maggiore e più decisivo rispetto al suo originale. Quanti sono interessati a visitare il museo dove è esposto un originale di Andy Warhol, rispetto al numero di soggetti che hanno incorniciato il manifesto della “sua” Marilyn Monroe? La politica, “invasa” dalla giustizia ha escogitato un arguto lasciapassare rispetto ai “bollenti spiriti” dell’opinione pubblica: costruire l’immagine commerciale della sua sottomissione alla Santa Inquisizione.