di Marco Di Donato, ricercatore Unimed
Il libro di Robert G. Rabil, Salafism in Lebanon, pubblicato nel 2014 e disponibile esclusivamente in inglese per i tipi della Georgetown University press, può certamente definirsi una utile guida introduttiva al delicato e controverso tema del salafismo: che lo si voglia definire salafismo quietista, movimentista, jihadista o anche, seguendo le recentissime cronache, politico.
L’analisi dei movimenti salafiti risulta oggi infatti di particolare complessità poiché proprio sotto l’ombrello “salafita” si tende a ricavare spazio per manifestazioni estremamente eterogenee fra di loro e che poco, o in certi casi nulla, condividono nel metodo e negli obiettivi da raggiungere. Come sia sostenibile questo insieme molteplice ce lo spiega proprio Rabil nel primo capitolo del libro dove si addentra nell’analisi delle basi teoriche del salafismo: Ahmad ibn Hanbal (che darà vita alla scuola giuridica hanbalita), Ibn Tayimiyya (che riprenderà la sua visione arricchendola ulteriormente) ed Abd Ibn al-Wahhab (che darà vita alla scuola wahabita promuovendola in stretta connessione con la casata dei Saud nel loro percorso di espansione all’interno della penisola arabica).
Indipendentemente dalle manifestazioni contemporanee del salafismo, che pure vengono presentate nei capitoli successivi (uno di questi ad esempio, l’ottavo, è dedicato al controversa tema siriano) è opportuno soffermare l’attenzione del lettore sulle prime due sezioni del testo: The creed, Ideology, and Manhaj (Methodology) of Salafism: A historical and Contemporaneus Frameowrk e The Path to salafism. Sono infatti questi primi due capitoli a fornire quell’inquadramento necessario per la comprensione delle fenomenologie contemporanee che altrimenti risulterebbero di difficile intendimento.
Sul tema aveva del resto già indagato, sebbene non essendo saggistica lamentasse una minore profondità teorica, uno studio della Masar Association in collaborazione con la Friedrich-Ebert-Stiftung. Il lavoro risultava particolarmente interessante per l’accesso alle fonti primarie illustrato nella metodologia (fondamentale in questo caso avere infatti accesso a fonti arabe e per questo motivo a pagina 249 del suo libro Rabil ha deciso di inserire un utile glossario per il lettore) e per le interviste (venti in totale) a vari esponenti salafiti riprodotte in appendice.
Era proprio la lettura di quelle interviste, a mio parere, a restituire la complessità della questione. E’ infatti molto difficile, pur in presenza di minimi comuni denominatori, trovare posizioni del tutto coincidenti fra le varie espressioni del salafismo libanese. E se questa molteplicità può forse sorprendere meno in altre realtà dove presente (l’Egitto con i suoi quasi 90 milioni di abitanti) certo risulta decisamente singolare in un caso come il Libano. In Libano vi sono infatti circa 4 milioni e mezzo di abitanti escludendo da questa cifra 1 milione di profughi siriani (dati Unhcr) e 450mila rifugiati palestinesi (dati Unrwa). Non solo.
Essendo il salafismo fenomenologia strettamente sviluppatasi in ambito sunnita e rappresentando i sunniti circa il 30% della popolazione, è chiaro come i potenziali candidati salafiti nel paese rappresentino veramente un numero molto ristretto. Eppure, nonostante l’acclarata esiguità numerica, i gruppi salafiti libanesi sono capaci di esprimere molteplici posizioni a livello di impegno politico e azione sociale nonché, è opportuno non dimenticarlo, sforzo armato contro i kuffar, ossia i miscredenti.
Ed è proprio per tentare di orientarsi nella galassia salafita che il libro di Rabil è estremamente utile. A must read book, come lo ha definito il prof. Joseph Elie Alagha. Così come altri interessanti testi sono contenuti nelle 10 pagine di Selected bibliography a termine del libro che da un lato forniscono ulteriori necessari riferimenti per il lettore e dall’altro mostrano la necessità di indagare e studiare ed analizzare ancora più nel dettaglio la fenomenologia salafita.