Vai a seguire una regia di Marco Plini e pensi, preventivamente, aprioristicamente e pregiudizialmente, di trovarti davanti a un qualcosa che somigli, o almeno ti riporti dentro gli schemi e il rigore di Massimo Castri, essendo stato suo allievo di lungo corso.
Invece, insospettabilmente, ed è un complimento per entrambi, per Castri del quale abbiamo amato la pulizia e la classicità, per Plini che ha un suo gusto formale e una sua estetica autonoma e originale, ci siamo trovati di fronte ad una bella operazione che “ripulisce” e svecchia una delle opere di Shakespeare meno battute, di minor appeal e anche meno usurate, sfibrate e abusate.
Il Coriolano ha un’anima e uno scheletro talmente contemporaneo che pare perfetto per questi tempi dove le parole “popolo” e “democrazia” hanno avuto da una parte un rilancio e un nuovo vigore, dall’altro spesso sono scambiate e polverizzate nel “populismo”. Calza a pennello questo Coriolano (intensa e carica produzione MaMiMò), asciugato ed essenziale, chiaro dopo una bella liposuzione, con il periodo referendario appena passato.
Ci sono tute bianche che rimandano al serial killer Dexter come ad Arancia Meccanica, ci sono facce nere e manganelli che ci portano al Ventennio fascista e squadrista, c’è un presentatore al microfono, perché tutto è show, tutto ormai è in presa diretta, ed è molto più importante la forma che il contenuto, la parvenza e l’involucro con la quale sono presentate le istanze che il loro vero senso.
Con un cortocircuito temporale sembra di respirare apertamente il conflitto sintattico e profondo che si cela e si agita e vive e vibra tra il renzismo, l’uomo forte al comando, e il Movimento di Grillo, che invoca il potere del web e la democrazia partorita dalla base. Coriolano, rappresentato con coperture alle giunture da Tartaruga Ninja o motociclista enduro (Marco Maccieri è forza, è corpo sudato, è energia tenuta alla catena pronta ad esplodere) è orgoglioso e insofferente, è insolente e arrogante, è spinto dalla madre Volumnia (Valeria Perdonò molto Lady Macbeth, noir e maleficamente decisiva) per fare il salto da guerriero comandante e combattente a patrizio, a console. Dietro passano le curiose, candide immagini di filmati vintage decolorate e sgranate con lo stesso Plini prima neonato, poi bambino.
L’atmosfera alterna il concerto, pompato, techno dai bassi cupi e disco ritmato, al comizio, mentre intorno si muovono e sgambettano e saltellano tra il palco e la platea i personaggi in abito classico da Iene (segnaliamo Luca Cattani e Giusto Cucchiarini in un cast giovane ben amalgamato, pugnace e agguerrito), completo nero, come la cravatta e camicia bianca che ormai, nell’iconografia collettiva nostrana fa rima con onestà, con ricerca della verità, con lo scardinamento dei poteri forti, con il far venire a galla scomode realtà, con il non aver paura di scoperchiare vasi di Pandora nascosti, taciuti, insabbiati.
Si ha la sensazione che la democrazia sia una parola vuota, gonfiata di significati soltanto quando serve a chi comanda le fila e muove i burattini; il popolo può decidere ma non può farlo e, come bandiera al vento, viene spinto da chi soffia più forte sul suo fuoco, tra paure e voglia di semplicità. Fuoco che, a vampate, diventa il più delle volte vendetta ed esaltazione di facili soluzioni, perché il popolo avendo infinite teste ed essendo composto da una moltitudine di singolarità e individualità, non potendo arrivare a una sintesi del suo pensiero, ragiona inevitabilmente di pancia, facendo prevalere gli istinti più basici e bassi.
Il popolo è di volta in volta usato e sfruttato, usurpato e violentato in nome del suo potere, appunto la democrazia, letteralmente il “potere del popolo” in greco antico, ma in definitiva è soltanto un attore che viene spostato e convinto con un tozzo di pane (gli 80 euro) o con qualche altra elemosina infiocchettata da rivoluzione. Anzi migliore è l’inganno più il popolo griderà all’onestà e alla sincerità e devolverà la propria libertà e i propri diritti delegandoli a qualcuno che li gestisca e stravolga quella stessa libertà in prostituzione.
La democrazia diretta è l’oppio dei popoli ed è inapplicabile perché ci sarà sempre chi, con l’inganno, saprà tradirla. Quando il popolo capirà che i politici non sono “onorevoli” ma soltanto suoi dipendenti forse sarà già troppo tardi.