“Ma quando finirà questa crisi?” è la fatidica domanda che un economista si sente rivolgere da quasi nove anni. Nella domanda stessa è insita un’aspettativa completamente distorta. In sostanza si ritiene che questa crisi per quanto lunga e virulenta sia pur sempre un fenomeno ciclico come sui libri di testo del secolo scorso. E quindi una volta che, schumpeterianamente, i danni conseguenti agli investimenti sbagliati saranno stati assorbiti e i fattori di produzione si saranno adattati alle nuove condizioni, il motore della crescita ruggirà più bello e maestoso che pria.
Ma dopo ogni anno che il Godot della ripresa rifiuta di palesarsi, l’ipotesi che siamo in presenza di un fenomeno molto più grave e molto più profondo acquista credibilità. E’ l’ipotesi della stagnazione secolare di cui ho scritto sul Fatto Economico del 26 aprile scorso. In sintesi, il progresso tecnologico che ha spinto lo sviluppo dalla prima rivoluzione industriale si è inaridito. Invenzioni che hanno sconvolto in positivo la vita quotidiana come l’elettricità, le autovetture, il cemento armato, gli aerei, la televisione, gli antibiotici, i computer sono sempre più rare e apportano miglioramenti sempre meno dirompenti.
Tuttavia accanto alla letteratura che si focalizza sull’inaridirsi del progresso scientifico, fenomeno a cui è arduo rimediare, sta emergendo un altro filone di analisi che attribuisce la caduta del tasso di crescita a un fenomeno causato dalla umana inettitudine mista a un viscido neo-autoritarismo: la proliferazione incontrollata di regolamentazioni sempre più astruse, pervasive, invadenti e in definitiva liberticide.
Il progresso e la crescita economica sono il frutto dell’ingegno e degli sforzi di chi aspira a migliorare ma anche di un sistema legale che protegge la proprietà privata dalle spoliazioni e dall’arbitrio dello Stato o dalla prevaricazione di gruppi violenti. Invece l’indottrinamento delle menti labili prone a interiorizzare lo slogan “Lo Stato siamo noi” (individui apparentemente sani di mente vengono spinti a identificare i propri interessi con quelli dei vari Renzi, Berlusconi, Bersani, Alfano, Poletti, Tremonti, Bossi o magari Di Maio), ha azzerato secoli di conquiste democratiche tese a difendere i singoli dalle ubbie del potere sovrano. Ricorrendo alle orwelliane lusinghe dell’egualitarismo e della redistribuzione si è spianata la strada a un sistema legale demenziale dove il confine tra lecito e illecito lo stabilisce ormai il capriccio di chi ha occupato le istituzioni attraverso elezioni farsa, peraltro in Italia regolate da una legge dichiarata incostituzionale.
Le leggi sono diventate un guazzabuglio inestricabile e incomprensibile scritte da burocrati autoreferenziali. Nessuno sa con esattezza cosa prescrivano perché il linguaggio è artatamente vago e fallace. Rimandano a commi e articoli di altre leggi anch’esse cervellotiche (la riforma di Boschi e Verdini aveva tentato di introdurre questo scempio del diritto negli articoli della Costituzione). E come se non bastasse le leggi votate da parlamentari che non hanno alcuna idea di cosa approvano, vengono integrate dai famigerati decreti attuativi, redatti anch’essi dall’alta burocrazia (che in Italia costituisce la vera casta, e non a caso gode di stipendi indecentemente più alti che nel resto del mondo).
Si prenda il caso più evidente: le norme fiscali. Chiunque presenti una denuncia dei redditi sa che adempiere a tutti gli obblighi è praticamente impossibile. Né il commercialista né tantomeno un funzionario dell’Agenzia delle Entrate sono in grado di garantire che tutto sia a posto. Così si conferisce un potere incontrollato a impiegati pagati con bonus principeschi per “scoprire” inadempimenti veri o inventati che siano. Tanto chi infligge sanzioni illegittime gode di assoluta impunità.
L’immensa platea dei telelobotomizzati ignora che nel solo 2016 (fino al 7 novembre) il governo Renzi ha prodotto una pletora di decreti attuativi la cui lista riempie 13 pagine (la si trova qui). Prendete un testo a caso e verificate cosa prescrive. Per godersi l’effetto tragicomico raccomando il decreto sulle Norme per la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti amministrativi. Oppure godetevi il primo articolo (lungo due pagine) del cosiddetto “decreto Taglialeggi“ sempre in materia di semplificazione.
Sicuramente non si tratta nemmeno dei casi più eclatanti di norme in cui si è fatto strame del concetto di certezza del diritto. Ad ogni passo, a ogni azione, a ogni stormir di foglia si incappa in qualche inghippo burocratico, che solo il parere di un qualche ufficio può dirimere ovviamente dopo qualche anno di attesa e laute parcelle ad avvocati che sguazzano nel sistema e “aggiustano” i “meccanismi”.
In questo tripudio kafkiano i burocrati concentrano nelle proprie mani il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. E dalla melma burocratica nasce la corruzione endemica ed inestricabile (specialmente tra i burocrati di cui i politici si prestano a fare i Dudù, come è accaduto alla povera Raggi in Campidoglio).
In un mondo dove chi vorrebbe investire e creare occupazione diventa ostaggio dell’arbitrio e della incompetenza la crescita è del tutto impossibile. Al contrario è razionale chiudere le imprese e investire in attività finanziarie fuori dall’Italia. Ma guai a farlo notare ai ministri che pomposamente si dedicano alla cosiddetta “politica economica”. La loro risposta potrebbe essere un altro profluvio di leggi accompagnate dal solito tsunami di decreti attuativi. Mentre logica elementare detterebbe di abrogarne almeno qualche decina di migliaia.