Dopo il fallito colpo di Stato di luglio, il Paese della mezzaluna ha forse vissuto la breve illusione che gli attacchi fossero finiti: ipotesi che era destinata a dissolversi. Perché oggi i vecchi problemi si sommano a nuove minacce. Antichi schemi, come quelli dei golpe militari, vengono ricalcati da nuovi attori, mentre i bersagli delle nuove organizzazioni criminali sono talmente tanti e così diversi che diventa impossibile proteggere tutti gli obiettivi sensibili
Il 2016 si era aperto per la Turchia con l’attentato a Sultanahmet, nel cuore storico della città. Un attentatore suicida si era fatto esplodere in mezzo ad un gruppo di turisti fermi davanti all’obelisco di Teodosio, nei pressi della Moschea Blu, uccidendo 10 persone. Non era stato certo un fulmine a ciel sereno. La seconda metà del 2015, infatti, era stata segnata da diversi attentati, tra i quali quello terribile di ottobre ad Ankara, nel quale avevano perso la vita oltre 100 persone. Tuttavia il 12 gennaio dello scorso anno, mentre un vento gelido spazzava la città ferita, sarebbe stato difficile immaginare quello che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Istanbul sarebbe stata colpita ripetutamente, come Ankara del resto, da diversi gruppi terroristi.
Fino a quando la notte del 15 luglio il tentato golpe, con i suoi quasi 300 morti e gli oltre 2000 feriti, sembrò quasi avere oscurato gli attentati precedenti. Perfino quello terribile del 28 giugno all’aeroporto Ataturk di Istanbul che aveva fatto inorridire la popolazione con le immagini dei terroristi che sparavano contro la gente dentro allo scalo prima di farsi esplodere. Dopo il golpe la Turchia ha forse vissuto la breve illusione che gli attacchi fossero finiti. Per cinque mesi circa, né ad Istanbul né ad Ankara c’è, poi, stato alcun grosso attentato. Ma l’illusione era destinata a dissolversi l’11 dicembre con l’attacco vicino allo stadio del Besiktas, dopo di che un’autobomba ha colpito un autobus dell’esercito a Kayseri prima che l’ambasciatore russo Andrej Karlov venisse assassinato davanti alle telecamere da un agente di polizia turco di 22 anni.
La spirale di violenza nella quale la Turchia sta sprofondando è difficile da spezzare per diversi motivi. Per prima cosa nel Paese della mezzaluna agiscono gruppi di terroristi diversi, con obiettivi diversi che scelgono bersagli differenti. Le formazioni di matrice indipendentista curda, il Pkk e il gruppo scissionista Tak (i Falchi per la libertà del Kurdistan), colpiscono soprattutto militari e polizia. Il che non significa, naturalmente, che nelle loro azioni non finiscano conivolti anche molti civili. Come, per esempio, nell’attentato di Besiktas. I marxisti-leninisti del Dhkp-C si affidano ad azioni isolate ma spettacolari, compiute da pochi uomini, che hanno come obiettivi simboli del potere o le forze di sicurezza. L’Isis, invece, mira direttamente alla popolazione civile, turisti o turchi, sparando raffiche di mitra oppure per mezzo di attentatori suicidi.
L’organizzazione di Fethullah Gulen, ritenuto da Ankara senza alcun dubbio la mente dietro il tentato golpe del 15 luglio, è qualcosa di ancora diverso. Una sorta di Stato parallelo, come viene definito, che negli anni ha infiltrato i suoi uomini all’interno della magistratura, dell’esercito, della polizia e così via. Anche nel caso del killer dell’ambasciatore russo, al di là della rivendicazione jihadista, molti elementi collegano l’agente ad ambienti gulenisti.
A complicare la situazione e a renderla ancora più esplosiva c’è poi la questione siriana. Il caos della Siria sembra contagiare sempre più il Paese della mezzaluna che ormai combatte una guerra aperta contro l’Isis. Non solo ma è guardata con sospetto e astio anche dagli altri gruppi jihadisti dopo il recente accordo con la Russia che ha portato ad un cessate il fuoco, supportato dalle Nazioni Unite. Mosca, infatti, è lo sponsor di Assad e dunque nemica giurata dei gruppi islamisti che al regime siriano si oppongono.
È in Siria che la Turchia si muove contro lo Stato Islamico e contro le milizie curde dello Ypg, ala militare del Pyd, per Ankara soltanto un’altra faccia del Pkk in versione siriana. Di certo tra il Partito dei lavoratori del Kurdistan e il Pyd ci sono contatti e affinità. La nascita di un’entità statale curda che possa fornire assistenza e una nuova retrovia, oltre a quella irachena dei monti Qandil, al Pkk è un vero incubo per Ankara che in Siria ha mandato l’esercito per combattere tanto gli uomini dello Ypg e del Pyd quanto quelli dell’Isis.
In questo complicato scenario i vecchi problemi della Turchia (come il Pkk) si sommano a nuove minacce (come, per esempio, l’ Isis). Antichi schemi, come quelli dei golpe militari, vengono ricalcati (per quanto maldestramente) da nuovi attori, non un esercito che vuole difendere la laicità di Ataturk ma un predicatore islamico, quale Gulen. Da qui nasce l’idea, condivisa da buona parte della popolazione turca e certamente da Ankara, di un Paese impegnato in una battaglia all’ultimo sangue contro tutti i nemici, vecchi e nuovi. Una guerra che, per molti, sta assumendo i contorni di una battaglia per la sopravvivenza.