Nel 1999 Trump considerò l’ipotesi di presentarsi come candidato alla Casa Bianca per il Reform Party e indicò in un libro i punti del programma. Il tempo della Guerra Fredda era finito, spiegava il miliardario teorizzando la necessità di un leader, capace di fare affari, di giocare su più tavoli e indirizzare le sorti del mondo. Ora che è presidente, strumenti e obiettivi della politica estera Usa sono destinati a cambiare. Lo dimostra l’atteggiamento tenuto sulla questione di Taiwan
Nel 1999, per qualche mese, Donald Trump considerò l’ipotesi di presentarsi come candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Non per il partito repubblicano, come sarebbe successo quindici anni più tardi, ma per il Reform Party. L’idea non superò la fase esplorativa, ma Trump scrisse in quell’occasione (insieme a un giornalista, Dave Shiflett) un libro: The America We Deserve. Tra i punti del programma, c’era una nuova visione dei rapporti internazionali. Il tempo della Guerra Fredda, quando “la politica estera era un grande gioco di scacchi tra Stati Uniti e URSS”, era finito. I giocatori erano ormai diversi, spiegava Trump, non più semplici osservatori ma attivi “e spesso non innocenti”. Il nuovo sistema mondiale rendeva necessario un presidente dealmaker, capace di fare affari, di giocare su più tavoli e indirizzare le sorti del mondo.
I due dealmaker che Trump aveva in mente, e cui intendeva ispirarsi, erano Franklin Delano Roosevelt e Richard Nixon. “Un vero dealmaker – dettava Trump – può giocare su più tavoli, soppesare gli interessi in competizione delle altre nazioni e, soprattutto, dare costantemente la precedenza agli interessi dell’America. Il vero dealmaker sa quando essere duro e quando fare un passo indietro. Sa quando bluffare e quando minacciare, capisce che vale la pena minacciare solo quando si è pronti a mettere in atto la minaccia”.