Buona parte del vecchio mondo della diplomazia si trova ovviamente preso in contropiede dall’“isolazionismo degli affari” che sembra la cifra più probabile della prossima politica estera americana. Se tutto è negoziabile, cosa ne sarà degli alleati più “periferici” della Nato? Che ne sarà dell’impegno americano a difendere la sicurezza di Giappone e Corea del Sud? Cosa avverrà dell’accordo sul nucleare iraniano? Continueranno le prove di normalizzazione con Cuba, nel caso la normalizzazione non dovesse portare gli attesi vantaggi economici? “La vittoria di Trump apre un periodo di incertezza”, ha detto non a caso il presidente francese François Hollande che, da europeo, potrebbe sentire molto presto gli effetti della politica della libera contrattazione inaugurata dal nuovo presidente americano.

C’è comunque anche chi, tra gli studiosi di politica estera, ritiene che la politica estera di Trump non sia un ribaltamento, quanto piuttosto il ritorno ai principi che hanno ispirato Washington per decenni. E’ il caso di Robert Blackwill e Jennifer Harris, ex funzionari nelle amministrazioni di George W. Bush e Barack Obama, che su “Foreign Affairs” hanno definito “geoeconomics” la dottrina cui Trump promette di tornare. La geoeconomia è “l’uso di strumenti economici – commercio, investimenti, politica monetaria, aiuti internazionali e cyberattacchi contro le banche – per realizzare obiettivi geopolitici”. Secondo Blackwill e Harris, l’uso dell’economia per realizzare obiettivi politici è stata una costante della politica Usa dall’Acquisto della Louisiana, nel 1803, fino al Piano Marshall. Sarebbe solo in anni più recenti, in particolare dalla Guerra Fredda in poi, che le amministrazioni Usa hanno preferito utilizzare politica e diplomazia come strumenti nelle relazioni internazionali.

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Trump cambia la politica estera: Usa mai più guardiani del mondo, sì ad alleanze variabili in base agli accordi economici

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