INCHIESTA SULL’ACCOGLIENZA/1. Una vergogna nazionale a pochi chilometri dal centro di Milano. Abusi, violenze, proteste sedate con manganelli e calci di fucile. Diritti calpestati. Suicidi. Sino a pochi anni fa. Eppure per alcuni abitanti dello storico quartiere milanese dell’Ortica si stava meglio quando si stava peggio. Cioè: fuori si stava meglio quando dentro si stava peggio. Ovvero quando l’attuale centro di accoglienza per richiedenti asilo di via Corelli 28, periferia Est della città, faceva parte del circuito dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione sparsi sul territorio italiano. Per la maggior parte chiusi, negli anni, dopo una serie di scandali. Oggi, sull’onda degli attentati jihadisti in Europa, in predicato di tornare in funzione in pieno regime. Nei Cie nessuno entrava, a parte i militari, i “reclusi” e qualche sparuta delegazione di parlamentari o di rappresentanti di organizzazioni non goverantive. Ma, soprattutto, nessuno usciva.
Oggi invece gli ospiti del centro di accoglienza di via Corelli entrano ed escono liberamente, sebbene entro certi limiti orari. E sono tantissimi: 450, compresi 30 minorenni non accompagnati. Percorrono la traversa che li separa dalla strada principale, salgono sull’autobus, si spingono fino al centro della città assieme agli impiegati, ai pendolari, ai coetanei milanesi. Vanno a frequentare corsi di italiano o a seguire tirocini professionali, a conoscere la città che li ha accolti. A sottrarsi a un isolamento doloroso.
Moltissimi sono africani. Perciò si notano. Danno fastidio. Fanno paura. “I miei clienti si lamentano perché la sera se li ritrovano intorno alle macchine parcheggiate”, dice Massimo Sottili, amministratore delegato e socio del Galeria, una trattoria milanese molto frequentata a poche centinaia di metri dal centro di accoglienza. “Magari non fanno niente, ma i clienti si stressano. E poi è anche una questione d’immagine”.
Già, l’immagine. Per contribuire a migliorare l’immagine dell’ex Cie, il centro di via Corelli ha aperto le porte a 50 volontari. L’obiettivo è garantire una qualità di vita dignitosa agli ospiti e provare a immaginare insieme un futuro sgombro dalle minacce di guerre, miseria, fame. Silvana Strambone è l’ideatrice della prima scuola “aperta” all’interno di un centro di accoglienza emergenziale. “Stiamo facendo un grande lavoro”, spiega Angela Marchisio, una volontaria molto attiva e amatissima dai rifugiati, che collabora con Silvana. “370 ospiti seguono i nostri corsi di italiano due volte la settimana. Altri 50 stanno frequentando un corso per muratori, 15 per badanti. Abbiamo laboratori di fotografia e atelier artistici, due team di calcio e due squadre di cricket. E Paola Vercelli, un’altra volontaria, si è inventata i ‘turisti del martedì”, un’iniziativa per fare conoscere ai rifugiati il patrimonio artistico di Milano’.
Con le frontiere chiuse, coloro che fino a un paio di anni fa venivano definiti “transitanti” si sono trasformati in ospiti stanziali, quasi tutti richiedenti asilo. La proposta di attività all’interno e all’esterno dei centri di accoglienza è funzionale al loro inserimento nel tessuto sociale e nel mercato del lavoro. “Ma serve anche a dare una forma e un senso alle loro giornate”, precisa Costantina Regazzo, direttore dei servizi di Fondazione Progetto Arca. “Putroppo i tempi di attesa tra il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo e la risposta alla richiesta di asilo sono molto lunghi. Si va da alcuni mesi a un anno. Nel frattempo i rifugiati rimangono in un limbo. Finalmente anche il Comune di Milano ha lanciato attività strutturate per tenerli occupati, come la pulizia di parchi e l’imbiancatura di scuole. Chi ha già ottenuto asilo può svolgere attività retribuite, per gli altri ci sono opportunità nel volontariato. Mentre con le borse lavoro ottengono un piccolo rimborso di 300-500 euro al mese”.
Assieme alla cooperativa Farsi Prossimo, Arca gestisce lo Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) di via Fortunato Stella, 50 ospiti, tutti uomini. Siamo dalla parte opposta della città, nel quartiere di Greco, altra area storica di Milano diventata problematica. A meno di un chilometro dallo Sprar c’è l’Hub di via Sammartini, alle spalle della Stazione Centrale, dove quotidianamente mangiano e dormono oltre 400 profughi, in gran parte sbarcati da poco e ancora traumatizzati dal viaggio. Di recente il sindaco Beppe Sala ha inviato all’esterno un presidio dell’esercito, operazione poco gradita agli instancabili volontari che giorno e notte accolgono i profughi. Evidentemente un modo per tenere a bada le inquietudini del vicinato.
“In realtà con gli abitanti di Greco non c’è particolare attrito”, assicura la coordinatrice dello Sprar Stella, Laura Melli. “Quasi sempre l’arrivo di profughi è accompagnato da mobilitazioni e proteste, come nel caso dell’ex Caserma Montello con i presidi di Lega e Casa Pound, che poi si concludono in un nulla di fatto. Io abito proprio lì, sono mamma di una bambina di 8 anni e ho assistito a manifestazioni di genitori terrorizzati dalla prospettiva che il parco dove giocano i figli venisse “invaso” da orde di migranti. Nel frattempo ne sono arrivati oltre 300 e la vita del quartiere non è minimamente cambiata”.
Ai residenti di via Corelli e dintorni, però, quel via vai di migranti causa parecchi malumori. Qualche tempo fa è comparsa una scritta su un muro: Andate a pisciare a casa vostra. “I negri fanno la pipì contro i muri, seminano per strada lattine e buste di plastica”, sbotta il proprietario del Galeria, che ha casa in un antico borgo restaurato a brevissima distanza dall’ingresso del centro di accoglienza. “450 persone e nemmeno un cestino per la spazzatura. Una cosa assurda. E già siamo assediati dai rifiuti della vicina Ricicleria. La gente arriva per disfarsi di un materasso o una tv, trova i cancelli chiusi e li molla nei prati davanti a casa nostra. Il degrado è totale”. Una cameriera della trattoria racconta che il loro cantante, una sera, è stato colpito a una spalla da un migrante senza motivo. “E’ proprio sbagliata l’accoglienza”, insiste Sottili. “Non vedo perché l’Europa debba farsi carico dei problemi di altri Paesi. Servono regole più rigide: senza lavoro non si entra, come fanno in Australia”.
Il fatto è che “la pancia della popolazione”, per usare le parole del ristoratore, “non è sempre saggia come il cervello”. Nemmeno quando i profughi sono giovani e istruiti come Sami, 21 anni, eritreo, uno degli ospiti di Corelli. Sami ha lasciato il suo Paese dopo che suo padre è stato imprigionato e torturato. Parla un inglese quasi perfetto. La sua famiglia ha trovato asilo in Finlandia. In attesa di raggiungerli, Sami studia il violino e spera di finire l’università. Vuole diventare astronauta. “Mi sento troppo solo in questo mondo”, è il grido disperato di Abbas, pachistano, rifugiato dello Stella. Non chiede molto: soltanto trovare qualche amico italiano.