Un’immagine di qualche anno fa di Maria Giulia Sergio, detta Fatima, a “Pomeriggio 5” - Ansa
Un’immagine di qualche anno fa di Maria Giulia Sergio, detta Fatima, a “Pomeriggio 5” – Ansa

Daesh, la “terra promessa” per molte famiglie lombarde e “l’effetto cascata”
Per avere la chiave di lettura giusta bisogna partire dalla sentenza della Corte d’Assise di Milano, che lo scorso 19 dicembre ha condannato a nove anni di carcere Maria Giulia Fatima Sergio, la prima foreign fighter di casa nostra. La sua vicenda, infatti, racchiude molti elementi che affiorano da altre esperienze. Probabilmente la 29enne non sconterà mai la sua pena. Perché se non è morta, si trova ancora in Siria dove è arrivata nel 2014, l’anno in cui lo Stato islamico raggiunge la sua massima espansione e si trasforma nel paradiso in terra di chi sogna di vivere sotto la legge della sharia. E’ in questo periodo che intere famiglie partono da ogni angolo del mondo. Italia compresa. “E una volta arrivate ne convincono altre a lasciare i paesi di origine”. E’ l'”effetto cascata“. Così lo chiama il sostituto procuratore del pool Antiterrorismo Maurizio Romanelli durante la requisitoria finale del processo a Fatima e alla sua famiglia. “Questi nuclei vanno a formare la base dell’Isis che ha l’obiettivo di creare uno Stato” e per questo ha bisogno di attirare a sé il maggior numero di famiglie, “alle quali fin dall’inizio si rivolge, a differenza di al-Qaida, composta esclusivamente da combattenti”. Maria Giulia Sergio raccoglie l’appello. La 29enne di origine campane abita con il padre, la madre e la sorella a Inzago, piccolo centro del Milanese. Nel 2008 si converte all’Islam. Cambia il nome in Fatima e inizia la sua personale radicalizzazione seguendo gli insegnamenti via Skype della sua “guida spirituale” Haik Bushra, un’ex studentessa di Bologna oggi fuggiasca in Arabia Saudita. La sua conversione investe tutta la famiglia, compresi papà Sergio, mamma Assunta e la sorella Marianna. Nella testa di Fatima l’idea di andare in Siria si trasforma in ossessione. Prima di partire però deve sposarsi con un aspirante mujahidin. Dopo aver scartato diversi pretendenti, la scelta ricade sull’albanese Aldo Kobuzi. Ma i futuri sposi non si sono mai visti di persona. Per questo Fatima decide di sottoporre Kobuzi a un test di affidabilità religiosa, con tanto di questionario. Il loro sarà un “matrimonio combinato“, “nato per via telematica e funzionale solo per partire a fare il jihad” ricostruisce Romanelli. Una volta in Siria per la coppia comincia la nuova vita. Fatima diventa un’insegnante all’interno della comunità di albanesi, ma il suo desiderio è quello di imbracciare il kalashnikov: “Il jihad è l’azione più grande e meritoria per Allah, io spero che il Califfo dia la conferma alle donne (…) io non vedo l’ora di morire da martire”. Il marito invece viene assegnato alla polizia religiosa. Fatima e Kobuzi si sono sistemati bene. “Noi qui – dice Fatima – tagliamo la testa ai miscredenti”. E lo Stato islamico provvede a tutto. Per questo i due sposi cercano di convincere il resto della famiglia a lasciare Inzago per raggiungerli. Ci riescono. Ma l’intervento della Digos di Milano nel luglio 2015 fa saltare il viaggio dei Sergio. Così come la polizia di Brescia il 7 giugno scorso impedisce a una ragazza italiana, 30 anni e di buona famiglia, di partire assieme al marito tunisino. “Oh Allah ti chiedo una morte nel tuo sentiero”, scriveva su Facebook.

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Reclutatori Isis, combattenti e aspiranti kamikaze: il grande romanzo nero del jihad è in Lombardia – Le storie

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