“America becomes a Stan”, recitava giorni fa, sul New York Times, un commento del premio Nobel per l’economia Paul Krugman. L’America diventa uno “stan”.
“Stan” è, ovviamente, il suffisso – derivato dal termine che, nell’antica Persia, stava per terra, paese – col quale si chiude il nome di molte delle nazioni (perlopiù tristi ed irrisolte creazioni dell’imperialismo britannico o periferici residuati dell’Unione Sovietica) comprese nell’Asia centrale. Ed è con questo suffisso che, nel gergo politico americano, viene definita quella che noi chiameremmo, con più tropicali accenti, una “Repubblica delle banane”. Sicché proprio questo – lungo il filo d’un paradosso che, ahinoi, potrebbe non esser tale – sosteneva il prestigioso columnist del New York Times: grazie alla vittoria di Donald Trump – personaggio il cui culto della personalità appare, con grotteschi risvolti, in ogni anfratto della sua biografia ed in ogni gesto della sua quotidianità – gli Stati Uniti d’America (chiamateli, se vi pare, Usastan) potrebbero essere avviati a rapidamente emulare le gesta gloriose del “gran leader della nazione” Nursultan Nazarbayev, presidente a vita del Kazakistan, o di quel Gurbanguly Berdinuhamedow, al quale, di recente, i sudditi del Turkmenistan hanno molto spontaneamente dedicato, in una piazza di Ashgabat, una statua equestre tutta ricoperta d’oro.
Pur rammentando come Trump abbia a suo tempo usato i danari della Trump Foundation, organizzazione in teoria creato con caritatevoli propositi, per comprare un molto costoso ritratto a grandezza naturale di sé medesimo, lo stesso Krugman ammette che non molte sono, per l’Usastan, le possibilità di discendere a tali profondità. Un fatto è tuttavia certo. La vittoria elettorale di Trump è, a tutti gli effetti, non solo l’ovvio riflesso d’una crisi politica, ma anche la prova d’una sorta di darwiniana involuzione della democrazia americana. E questo non tanto perché un bancarottiere seriale è giunto alla Casa Bianca dopo aver abbassato ben al di sotto d’ogni immaginabile limite la barra della demagogia, dell’incompetenza e del decoro personale, quanto per le caratteristiche, diciamo così, politico-statistiche di questo metaforico ritorno allo Stato scimmiesco.
Non è certo la prima volta che, in democrazia, vincono le scimmie. O, fuor di metafora: non è la prima volta che, nel mondo, un ciarlatano vince una corsa elettorale. E certo è che al successo del molto grossolano populismo “anti-establishment” di Trump hanno contribuito, non solo com’è ovvio i vizi dell’establishment nel quale Hillary si specchiava, ma anche – soprattutto forse – il risentimento cresciuto in quelle parti dell’ “America bianca” che la globalizzazione ha, nel tempo, abbandonato a se stessa. Quello che però davvero rende “eccezionale” – parte, se vogliamo, del lato più oscuro dell’ “eccezionalismo americano” – il trionfo di Trump, non è il fatto che la demagogia abbia reso popolare il vincitore, bensì l’esatto opposto. Ovvero: è il fatto che quest’ultimo si è affermato – grazie anche ad un sistema, quello dei collegi elettorali, tanto obsoleto da essere ormai demenziale – a dispetto della sua assoluta e misurabile impopolarità.
I numeri parlano, a tal proposito, un linguaggio inequivocabile. Che Trump abbia vinto pur prendendo, nel cosiddetto “popular vote”, quasi 3 milioni di voti meno della sua rivale, è cosa nota. Ed ancor più noto è come a spostare a suo vantaggio l’ago della bilancia siano stati, nel collegio elettorale, appena 83mila voti in tre dei cinquanta Stati dell’Unione (il Wisconsin, il Michigan, la Pennsylvania). Ma ancor più significativo diventa questo “Stato di minoranza” del vincitore, quando queste cifre vengono demograficamente e geograficamente scomposte. Trump ha perso, anzi straperso, in tutte le città con più di un milione d’abitanti. Nella capitale, Washington DC, dove dopo il 20 gennaio alloggerà al 1600 di Pennsylvania Avenue, il neo-presidente non è arrivato al 5%. A New York, la sua città, non è arrivato, nella media dei cinque boroughs, al 15%. Ed i sondaggi rammentano come “the Donald” – sì il medesimo Donald che va in queste ore sostenendo d’avere vinto per “landslide”, a valanga – sia oggi di gran lunga, con suo 43% scarso di consensi, il più impopolare neo-presidente di tutti i tempi. Più in generale, Trump ha perduto, spesso in modo quasi plebiscitario, in quella parte degli Usa dove viene prodotto quasi il 70 per cento della ricchezza nazionale. Il che significa che l’onda che lo ha portato alla Casa Bianca non è soltanto un’onda potente ma minoritaria. È un’onda che viene dal passato, ovvero, dalle parti più economicamente, culturalmente e socialmente arretrate del paese. Un’onda torbida, inquinata da tutti i più tenebrosi risvolti (razzismo, xenofobia, omofobia, misoginia) del risentimento bianco. È l’onda dell’Usastan…
Il prossimo 20 gennaio quest’onda diventerà governo. Allacciate le cinture.