Nel Capodanno che ha visto tutte la capitali europee blindate per il timore di altri attentati dopo quello di Berlino, il terrorismo ha colpito, e non è certo la prima volta, il cuore della Turchia: una quarantina i morti di un attacco avvenuto poco dopo la mezzanotte, in una delle più famose discoteche di Istanbul.
Tre gli attentati, un numero imprecisato di vittime e la rivendicazione dell’Isis, nel giorno in cui a Baghdad è arrivato il presidente francese Francois Hollande per incontrare le truppe francesi impegnate in Iraq. Almeno cinquanta morti, in Brasile, in una rivolta nel carcere di Manaus, fra cui sei detenuti decapitati e lanciati fuori dalle finestre.
La morte non è più la cosa solenne incontro alla quale si va a piccoli passi silenziosi. Di essa ci parlano in continuazione le fosse comuni, testimoni mute, ma terribilmente eloquenti, di esecuzioni di massa, che si rinvengono nei territori martoriati dalle guerre civili; i carnai di guerra; le migliaia di cadaveri delle vittime di un terrorismo sanguinario che colpisce indiscriminatamente in tutto il mondo, ma anche i corpi dei migranti annegati nel Mediterraneo, durante le traversate della disperazione. Tutte cose che fanno senz’altro notizia, ma che non commuovono più di tanto, perché, in fondo, non abbiamo elaborato una cultura della morte: essa, diventata indecente, è stata semplicemente rimossa.
È ormai lontano il Medioevo, tempo in cui la morte, paura ancestrale per eccellenza, affollava leggende popolari, racconti, poesie edificanti, affreschi e quant’altro, sotto forma di molteplici visioni: cavaliere apocalittico, magari alla guida di una masnada di hellequins o a capo di una caccia tragica, demone che scende dal cielo con ali di pipistrello, scheletro armato di falce, spada o arco, pilota di un carro pieno di morti.
Lontano è anche il tempo in cui Michel de Montaigne asseriva che per dare un senso alla propria vita, come alla propria morte, quindi per abituarsi al pensiero della morte, bisogna “portarlo sulla spalla come i signori del suo tempo portavano sulla spalla il falcone quando andavano a caccia nei boschi e sulle rive della Dordogna”, per abituare se stessi e l’uccello cacciatore a stare insieme e prender confidenza l’uno dell’altro.
Vi è piuttosto in noi un’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita; ne abbiamo messo a tacere il pensiero e insistiamo in genere sulla causa accidentale di essa: incidente, malattia, infezione, tarda età, rivelando così una tendenza ad abbassare la morte da fatto necessario a fatto casuale. Sembra di assistere, insomma, alla scomparsa dell’idea stessa della morte, nei confronti di quella che può essere considerata la più terribile fatalità biologica, sia il singolo sia l’intera società rimuovono l’idea della fine evitando persino di pronunciarne la parola.
Colpa magari, per dirla con Massimo Fini (Abitudine e negazione. I mass-media e la morte in Angela Deganis, Appuntamento con la morte: un’opportunità da non perdere, 2005, p.88 e ss.), del fatto che al senso della vita collettiva si è sostituito quello della vita individuale con la morte divenuta anch’essa individuale e definitiva e che assieme alla paura della malattia e della vecchiaia, procura oggi quel terrore che nessuna delle culture del passato ha mai nutrito.
Sono, tuttavia, stranamente attuali le incisioni lugubri di Hans Holbein il Giovane, dove si vedono morti, sotto forma di cadaveri scarni o anche di scheletri, trascinare in danza grottesca ciascuno un personaggio delle varie condizioni umane: papa, imperatore, cardinale, re, e via via usuraio, lavoratore, fanciullo. Mentre, infatti, si cerca di rimuovere il problema della morte, sui mass media si assiste invece al paradosso della spettacolarizzazione della morte, mostrata in tutti i suoi aspetti più cruenti. Questo perché la morte violenta è una morte dinamica: in un certo senso è meno morte perché lascia aperta una prospettiva di salvezza. La morte violenta, in fondo, è meno angosciosa della morte biologica: quella è un’eventualità non una ineluttabilità mentre questa è evento ineludibile.