La "fake news" è stata riportata da uno dei più autorevoli quotidiani statunitensi, battuta dall'Ansa e poi ripresa da diversi media italiani, che però non si sono accorti della successiva smentita della stessa testata americana
Gli hacker russi attaccano la rete elettrica americana, ma è una fake news. A poche ore dall’articolo del Washington Post che lo afferma – citando fonti interne di una compagnia elettrica locale situata a Burlington, nel Vermont – la rete si popola di articoli che raccontano dettagliatamente che “Hacker russi sono penetrati in una rete elettrica del Vermont”, e che “la scoperta è stata possibile grazie alla condivisione, da parte delle autorità federali con le utility nazionali, dei codici associati alle operazioni degli hacker russi, in questo caso ‘Grizzly Steppe’”.
Il fatto in Italia viene riportato dai maggiori quotidiani quasi esattamente con le stesse parole con cui l’Ansa aveva fatto il suo lancio, dove però era correttamente riportato: “Lo scrive il Washington Post citando dirigenti americani sotto anonimato, che precisano di non conoscere le intenzioni dei pirati informatici”. Sia Repubblica che il Corriere della Sera, tanto per citare i quotidiani italiani più accurati, usano per intero anche quello che sembra più un commento della redazione dell’Ansa, piuttosto che un fatto, e lo usano come catenaccio (Corriere): “L’intrusione ha il sapore di uno sberleffo dopo le sanzioni americane, a dimostrazione che gli hacker russi continuano la loro azione di disturbo incuranti delle conseguenze”.
Niente di straordinario, quindi, è normale che anche le grandi testate facciano un copia-incolla delle notizie dell’Ansa che ha proprio questo ruolo, dare le notizie grezze che poi le redazioni approfondiscono e sviluppano. Solo che la notizia è falsa. Gli hacker non hanno penetrato la rete, ma si è scoperto che un singolo computer laptop, disconnesso dalla rete, era stato infetto da un malware. A qualche ora di distanza dalla pubblicazione dell’articolo il Washington Post corregge il tiro e in testa all’articolo dice di aver dato una notizia sbagliata. E si corregge dandogli ampia evidenza, anche se verrà criticato per non aver fatto le necessarie verifiche. Il Washington Post scrive: “Editor’s Note: An earlier version of this story incorrectly said that Russian hackers had penetrated the U.S. electric grid. Authorities say there is no indication of that so far. The computer at Burlington Electric that was hacked was not attached to the grid”.
Anche qui, niente di grave, si dirà, anzi, è la dimostrazione che il sistema è in grado di autocorreggersi. In fondo tutti possiamo sbagliare in questo corsa allo scoop. Il punto è che nessun altro giornale in Italia l’ha fatto, lasciando in bella vista una notizia che in base a un ordine esecutivo di Obama del 15 aprile del 2015 potrebbe scatenare per rappresaglia una cyberwar vera e propria con conseguenze inimmaginabili per la natura del conflitto che usa armi digitali, che si autoreplicano, possono costare poco e possono essere usate anche da ragazzini al contrario delle armi nucleari. Ma che, come le armi nucleari, possono causare molti morti: pensate all’improvvisa interruzione della corrente elettrica in una capitale europea con ascensori che si bloccano, operazioni chirurgiche che si interrompono, semafori che si spengono, torri di controllo aereo che smettono di funzionare. Paura, eh?
Ecco che allora torniamo alle fake news, alle bufale appunto, quelle di cui sarebbe (ed è pieno) il web che anche le più alte cariche della Repubblica come Boldrini, Mattarella, Pitruzzella, vorrebbero ripulire con iniziative fantasiose e che progressisti come Enrico Mentana pensano di combattere vietando l’anonimato. La domanda è: le fake news create ad arte in un gruppo Facebook o da un blogger fanno più o meno danni delle bufale contrabbandate dai media professionali? Che fine fanno quegli errori tanto marchiani che per dinamica di network ed effetto sull’opinione pubblica acquisiscono lo status di bufala? E cosa fanno i nostri giornali posti di fronte alle doverose ma spesso poche e striminzite smentite, necessarie se non a tamponarne gli effetti a educare il pubblico? Ma sopratutto, a cosa sono dovute quelle bufale? Alla disattenzione di un lavoratore stanco, agli stagisti che lavorano al posto dei professionisti? Ai professionisti prepensionati e poi rientrati come consulenti in redazione o a quelli che non conoscono internet e il digitale?
Su questo non c’è ancora dibattito pubblico al di fuori della cerchia degli esperti e dei diretti interessati. Perciò io sommessamente suggerirei di andarci piano con questa storia delle fake news. Nel caso dell’”attacco del Vermont” sarebbe difficile dimostrare la totale buona fede dei giornalisti del Washington Post, affidarsi ciecamente alla loro professionalità ed eliminare ogni dubbio che il falso scoop non fosse stato pilotato. Le fake news possono contagiare anche i più preparati, figuriamoci quelli che lo sono meno.
di Arturo Di Corinto