Nonostante condanne e scandali, i vari numeri uno degli sport italiani restano in sella per decenni. Due esempi: Luciano Rossi e Sabatino Aracu, entrambi politici nel tempo libero, sono i numeri uno di tiro a volo e pattinaggio dal 1993. Merito (o colpa) di un insieme di regole che penalizza eventuali sfidanti. "Hanno in mano potere, cassa e giustizia. E questo fa sì che chi comanda oggi, al 90% lo farà anche domani”, spiega Marzio Innocenti, ex capitano della nazionale di rugby, che lo scorso settembre ha provato invano a sfidare l’ordine costituito. Soluzione? Cambiare le norme dall'esterno, introducendo limiti di mandato. Malagò ci proverà (dopo la sua rielezione)
Possono avere condanne o conflitti d’interesse, approvare bilanci in ritardo o in passivo, portare a casa risultati disastrosi gestendo risorse ed attività in maniera opaca. Verranno comunque rieletti. Sono i presidenti delle Federazioni sportive: padri padroni intoccabili, a volte anche per decenni, di discipline più o meno importanti su cui hanno un potere quasi assoluto. La lista è lunga: si passa per grandi sport nazionali come scherma, basket, tennis o piccole nicchie semiamatoriali come bocce, pesca e tiro a segno. Una casta quasi impossibile da scalfire, perché nello sport italiano il potere si autopreserva grazie ad un sistema di prebende, terrore e regolamenti interpretabili. “I presidenti hanno in mano potere, cassa e giustizia delle Federazioni. E questo fa sì che chi comanda oggi, al 90% lo farà anche domani”, spiega Marzio Innocenti, in passato capitano della nazionale di rugby, che lo scorso settembre ha provato invano a sfidare l’ordine costituito. “Il sistema non permette il cambiamento”, ribadisce Jury Chechi, un altro dei tanti ex atleti che non ce l’hanno fatta all’ultima tornata di elezioni: come ogni quattro anni, infatti, a fine 2016 le Federazioni erano chiamate ad eleggere la propria guida al termine del ciclo olimpico. E anche stavolta hanno scelto di non cambiare.