Meglio tardi che mai (con il punto interrogativo, però): basterebbe tanto per riassumere il meeting che si apre oggi, 9 gennaio, a Ginevra sulla questione cipriota; la fase finale dell’ennesimo tentativo di risolvere la più lunga partita diplomatica europea del Dopoguerra.

Non si troverà grande copertura sui media, né fiumi di analisi né la comunità internazionale in trepidante attesa del risultato: d’altronde a poche miglia marine dall’isola più a est del Mediterraneo, ci sono la Turchia in fiamme e l’inferno siriano, le due più grandi preoccupazioni per l’Europa e il nuovo scacchiere geopolitico mondiale. Nell’agenda, pare che la soluzione alla questione cipriota non trovi, ormai, più posto. Eppure non è sempre stato cosi: nel ’74 Grecia e Turchia arrivarono a un passo dal conflitto armato per Cipro. Tanto per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, quanto per la comunità internazionale, la crisi era una priorità.

Oggi la situazione dell’area e quella interna agli Stati che proteggono le loro comunità sull’isola – ma soprattutto i loro interessi strategici – è ben lontana da allora: per la Grecia, in ginocchio a causa della situazione economica, Cipro è l’ultimo dei problemi. E gli obblighi derivati dal Trattato del ’63 con Turchia e Regno Unito, responsabilità di cui fare volentieri a meno: Tsipras lo ha detto chiaramente e Theresa May, probabilmente più preoccupata dalla Brexit che dalla riunificazione cipriota, sembra essere dello stesso avviso.

Rimane da capire cosa intenda fare Erdogan: i messaggi da Ankara sono di conciliazione, e la turbolenta situazione interna turca deporrebbe a favore di una soluzione. Ma il “Sultano” ha disperato bisogno di sostegno da parte dei “nostalgici” del suo Paese; la destra e quegli elementi dell’esercito della mezza luna per i quali Cipro rappresenta la sola e unica vittoria militare dalla caduta dell’Impero Ottomano. Cosa farà, quindi, rimane un punto interrogativo.

E poi c’è l’Onu: qualcuno ha definito la missione di peacekeeping Unficyp un “fossile” della guerra fredda. Ad oggi è la più longeva missione di pace targata UN dopo quella in Pakistan ma questo record, comincia a spazientire molti: comunque vada, dopo oltre mezzo secolo, c’è bisogno di voltare pagina. Soprattutto per le Nazioni Unite. A completare il Risiko cipriota sarà presente anche l’Unione europea con Juncker a guidare la delegazione: per il brutto periodo che sta attraversando Bruxelles persino Cipro unificata potrebbe rappresentare un successo contro l’euroscetticismo. Piccolo, certamente, ma da agitare con vigore.

Nella partita che si giocherà a Ginevra da oggi, le tre “potenze garanti” entreranno in gioco solo l’11; solo dopo, insomma, che i due leader avranno discusso le questioni ancora sul tavolo (tante, a quanto pare): composizione territoriale del futuro stato federale, equilibrio tra greci e turchi nel governo condiviso, il ritorno (o meno) delle proprietà confiscate, la sicurezza per le due comunità. Dicono sia una discussione finale, perché dopo 18 mesi di negoziati, da questo incontro dovrebbe uscire una proposta definitiva per uscire dal cul de sac nel quale è intrappolata da 43 anni l’isola; finale perché, dicono i leader, se la soluzione non si trova questa volta, probabilmente l’isola è destinata a rassegnarsi alla partizione ossia a discutere un assetto finale del precario status quo odierno.

Le aspettative sono tante ma le perplessità, forse, di più. D’altronde gli sforzi del presidente cipriota Nicos Anastasiades e del suo collega, il presidente della secessionista “Repubblica turco-cipriota” – Cipro Nord per capirci – Mustafa Akinci per giungere a una soluzione sono innumerevoli ma i conti vanno fatti con la realtà. E la realtà ci dice che i ciprioti vivono separati da oltre due generazioni; e per sanare questa situazione, forse, è trascorso già troppo tempo. Mentre il rancore per il decennio di violenze è ancora una ferita viva: e per sanare questo, forse, è trascorso troppo poco tempo.

Dicono che il problema sia rappresentato dai profughi, da quanti di loro potranno rientrare in possesso delle loro terre. E dai coloni, da quanti coloni turchi potranno restare. E poi se i soldati di Ankara dovranno fare le valige oppure potranno mantenere un contingente anche nell’ipotetico stato federale. Ma la questione a monte rimane sempre la stessa: come potranno coabitare le vecchie generazioni di greci e turchi – che si sono odiate senza sosta per oltre mezzo secolo – e le nuove, cresciute ad halloumi (tipico formaggio cipriota, ndr) e collera verso i vicini-nemici? Che i due vecchi leader, insomma, disegnino mappe e cerchino soluzioni tecniche in un clima di ragionevolezza potrebbe non bastare: a questo punto non è più sufficiente un accordo, ci vuole anche un accordo che funzioni.

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