La querelle tra il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e lo scrittore Roberto Saviano francamente non entusiasma e pare vana, come cercare di incrociare due rette sghembe. Le prime polemiche risalgono al tempo della fiction Gomorra che, secondo molti napoletani, anziché offrire del delinquente l’immagine del vigliacco, consentirebbe a molti ragazzini delle periferie disagiate di trovare in alcuni personaggi dei ruoli in cui immedesimarsi.
La questione è nuovamente divampata nei giorni scorsi, a seguito del ferimento di quattro persone tra cui una bambina, durante una sparatoria. Secondo Saviano, il sindaco napoletano poco si starebbe impegnando per combattere i veri mali della città, limitandosi al maquillage attraverso un’operazione di marketing e d’immagine.
Si tratta di due figure, diversamente influenti. A me dispiace molto, in tutta onestà, che il sud debba continuare a essere il palcoscenico della polemica improduttiva. Il dibattito sul sud rimane, in tutta evidenza, a cavallo tra ipocrisia e generalizzazione. Nel caso specifico osservo il perpetuarsi dell’antica sovrapposizione tra Napoli e camorra che, forse non occorre ricordarlo, risale almeno ai tempi dell’Unità. Al famoso plebiscito in cui i camorristi presidiavano i seggi con la coccarda tricolore. Ma oggi, chi fingesse di trascurare che il livello di pervasività della criminalità mafiosa ha raggiunto dei livelli assai più alti e sovraterritoriali, peccherebbe o in insipienza o in ipocrisia, appunto.
I recenti testi di Nino Di Matteo, Collusi, e di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Padrini e Padroni, mostrano uno scenario nitido e intelligible anche al lettore comune. Uno scenario documentato in cui la connivenza tra la politica, certi settori di pubblica amministrazione e le mafie che insistono sul territorio, ha raggiunto livelli molto preoccupanti. Vi si legge come le cosche riescano ormai a fare più introiti nel Nord-Italia e in Europa che nelle regioni storiche di provenienza; continuare a identificarle con un luogo o addirittura una città non può continuare a essere, a lungo, una strategia vincente.
Al di là delle gravi questioni sociali con cui il degrado si manifesta nelle periferie. E non solo a Napoli. In secondo ordine vien da domandarsi, nell’attuale ordinamento amministrativo, quali armi abbia a disposizione un sindaco per combattere la criminalità mafiosa, al di là dell’azione amministrativa e culturale. Certo è che i sindaci per il sud sono spesso gli agenti più rilevanti del cambiamento di un territorio. Alcuni, nel passato, hanno dato prova di grande coraggio nello stravolgere la politica locale, ma hanno trovato grandi difficoltà, la sordità degli intellettuali e della politica, persino la violenza di un sicario. Penso all’esperienza politica del sindaco-poeta Rocco Scotellaro, a Tricarico, terminata con un’artefatta macchina del fango, poi scioltasi come neve al sole. O a quella del sindaco-pescatore Angelo Vassallo, di Pollica, assassinato nel 2010.
Non deve sorprendere che il sud faccia notizia solo se si parla di cronache o disastri. Lo dimostra lo studio sociologico condotto da Valentina Cremonesi e Stefano Cristante, La parte cattiva dell’Italia: Sud, Media e Immaginario Collettivo (Mimesis, 2015), in cui si legge che in trent’anni, sul Tg1, il Mezzogiorno è stato lambito solo dal 9% delle notizie, quasi tutte solo inerenti, appunto criminalità e clima.
Nella querelle in corso, pertanto, troviamo accanimento mediatico solo perché alimenta il circo prolifico del luogo comune. Quel che non vedo, invece, è un proficuo cospirare delle potenzialità positive in campo verso il riscatto mediatico-culturale dell’idea che di Napoli ha la gente che non la conosce e non ne apprezza i cambiamenti in fieri. Rette sghembe che, anziché incontrarsi, per il bene comune, si limitano a duelli dialettici. In questa direzione va l’invito a incontrarsi e parlare fatto ieri da Raffaele Cantone.
Al di là del caso specifico, dagli intellettuali italiani mi aspetterei il coraggio di ridisegnare la geografia dello scandalo. Penso al silenzio sull’imponente pietra d’inciampo della corruzione, che vede invece cospiranti, nel silenzio di tante voci, colletti bianchi, politici e consorterie di varia forma. In un’intervista rilasciatami non troppo tempo fa, lo scrittore napoletano Erri De Luca, in quell’occasione, ha dichiarato apertamente: “Non esiste una questione meridionale, esiste una questione nazionale e si chiama corruzione. Siamo ufficialmente il paese a più alto tasso di corruzione in Europa insieme alla Bulgaria. Da questo punto di vista Napoli è un esperimento virtuoso con un sindaco ex magistrato che ha tenuto a bocca asciutta gli accaparratori di denaro pubblico”. Una denuncia chiara e una presa di posizione evidentemente meditata e consapevole, da parte di uno degli scrittori italiani più influenti. Invita a riflettere.
Di analogo segno le dichiarazioni del giornalista Sandro Ruotolo, da sempre impegnato su temi delicati come la criminalità organizzata. Erri De Luca fa riferimento al medesimo bubbone che ho trovato nei testi di Gratteri e Di Matteo, impegnati da decenni in magistratura. Per questo, sostengo che gli intellettuali dovrebbero additare le multiformi pietre dello scandalo, esponendosi ben al di là di un pacato riformismo.
Occorre una rivoluzione di pensiero, che dimostri come non sia possibile parlare di “Paese civile” se la libertà di informazione vede l’Italia al 77° posto nel mondo, se la povertà si espande senza sosta, se la cerchia dei tutelati, dal lavoro alla sanità, si fa sempre più esclusiva e le forze più fresche del paese sono tenute al di fuori del mondo del lavoro. Il coraggio di andare oltre i luoghi comuni e di attribuire un nome e un cognome ai fallimenti politici a cui stiamo assistendo. Un Paese civile trova nell’esclusione dal recinto dei diritti lo scandalo più grave e non disegna il proprio futuro limando i bilanci per giustificare, attraverso tagli progressivi, il progredire della sola barbarie.