I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Italia, per far carriera di essere un professionista dell’anti-antimafia.
Ok, chiedo subito scusa per aver indegnamente rimaneggiato il celebre brano di Leonardo Sciascia, tratto dall’altrettanto celebre articolo I professionisti dell’antimafia, pubblicato esattamente trent’anni fa, il 10 gennaio 1987, sul Corriere della Sera. Resta il fatto che i professionisti dell’anti-antimafia, in questi tre decenni, si sono sempre visti garantire direzioni di giornali – magari foraggiati da contributi statali o da mecenati interessati -, programmi televisivi, rubriche, ospitate ai talk show nonché seggi parlamentari e posti da ministro. Anche più dei professionisti dell’antimafia evocati in quell’articolo.
Chi sono i professionisti dell’anti-antimafia? Sono quelli che per mestiere attaccano sistematicamente i magistrati, che stanno sempre dalla parte dei politici accusati di collusione, anche dopo la sempre invocata “condanna definitiva” (Dell’Utri, Cuffaro…). Sono gli spacciatori di garantismo per l’uso personale di amici e amici degli amici. Sono quelli che fanno paginoni sugli antimafiosi caduti in disgrazia o sulle polemiche giudiziarie (ormai non solo palermitane), ma mai che gli scappi mezza riga sulle vittime di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra: i piccoli commercianti taglieggiati, gli imprenditori usurati, i contribuenti saccheggiati quando gli appalti e i finanziamenti pubblici finiscono alle aziende dei boss con la complicità di una vasta “area grigia”.
Ieri il Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro, ha celebrato la “profetica lungimiranza” dell’articolo di Sciascia, collegandolo ai tanti guai che oggi colpiscono personaggi e sigle a vario titolo impegnati – o autoproclamatisi tali – nella lotta alle cosche: il giudice Silvana Saguto, l’ex presidente di Confcommercio Palermo Roberto Helg, il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, il giornalista Pino Maniaci, fino alle polemiche interne a Libera (per chi vuole approfondire, tutte vicende che ilfattoquotidiano.it ha ampiamente raccontato). Eccoli i “professionisti dell’antimafia” che il grande scrittore siciliano additò addirittura con trent’anni di anticipo. Ma le cose stanno davvero così? Andiamo a rileggere l’articolo originale.
Innanzitutto, Sciascia non usa mai il termine “professionisti dell’antimafia”, che è farina del sacco del titolista del Corriere. E neppure accenna a truffe e malversazioni in nome dell’antimafia. Il brano centrale – in un lungo articolo che prende spunto da un saggio inglese su regime fascista e Cosa nostra – è questo: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un solo giudice è citato, e in negativo. Si chiama Paolo Borsellino. La sua carriera antimafia finirà cinque anni più tardi, sappiamo come. Cavallaro racconta che poi lo scrittore e il magistrato si incontrarono e si spiegarono, e che Borsellino “non era il bersaglio” dell’articolo.
Anche in questo caso, ognuno può rileggerselo e valutare se il celebrato (oggi, allora non molto) eroe dell’antimafia ne uscisse bene o male. Trent’anni dopo, Nando dalla Chiesa resta convinto che il bersaglio fosse proprio lui, come rimarca oggi su Il Fatto Quotidiano. Aggiungendo che Borsellino, prima di essere assassinato con la sua scorta, “fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che ‘Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia’”.
L’altro bersaglio, non citato per nome, è l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Descritto nell’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso”. Orlando può piacere o meno, ma ruppe con la Dc storicamente complice di Cosa nostra in Sicilia (Ciancimino, Lima, Andreotti… il boss-grande elettore Giuseppe di Cristina. Avevano fatto carriera lo stesso, anche più di Orlando). E oggi, trent’anni più tardi, nonostante la “lungimirante profezia” che lo vedeva occuparsi più di “convegni” che di “acquedotti”, i cittadini di Palermo conservano Orlando sulla stessa poltrona, dopo aver sperimentato altri sindaci che certo dell’antimafia non facevano né una professione né una passione. Piuttosto erano politicamente imparentati con Silvio Berlusconi, quello che il mafioso – sotto forma di stalliere – se lo teneva in casa.
Ancora un paio di cose. Dieci mesi dopo l’articolo di Sciascia, il 17 dicembre, lo stesso Corriere della Sera, a firma di Alfio Caruso, commentava così la sentenza di primo grado del maxiprocesso di Palermo, oggi unanimemente riconosciuta come il primo grande colpo dello Stato contro Cosa nostra (che infatti reagirà con le stragi): “Ieri sera, in un punto imprecisato degli Stati Uniti, Tommaso Buscetta è tornato a far parte della mafia vincente”, si leggeva sul quotidiano milanese. “Glielo hanno permesso i giudici che a Palermo, accogliendo le sue confessioni, hanno punito le grandi famiglie dell’onorata società, gli uomini che avevano decretato lutti e terrori per amici e consanguinei del boss dei due mondi”. Più avanti, un cenno “agli inguaribili ottimisti che parlano di sentenza storica”.
Chi aveva istruito quel processo? Borsellino e Falcone (giudice a latere l’attuale presidente del Senato Piero Grasso). Anni più tardi, su Repubblica del 29 ottobre 1993, lo scrittore Corrado Stajano, storica firma delle pagine culturali del Corriere, descriverà così il clima di quegli anni in via Solferino: “Per tutti gli anni Ottanta non mi è stato permesso di scrivere di mafia. Eppure ero tra i pochi a conoscere i fatti e ad avere letto tra l’altro le 8mila pagine dell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso”. Un’esclusione che si spiegava “forse perché stavo dalla parte del pool antimafia”, ricordava Stajano, in un’epoca in cui “le direzioni dei giornali esercitavano un controllo micragnoso, assillante” su qualunque notizia potesse “nuocere o spiacere ai governanti”. Questo per dire il contesto, tanto per restare in tema sciasciano. C’era un potere politico che storicamente intrallazzava con la mafia, e per non turbarlo era meglio recintare per bene le cronache palermitane, compresi gli atti vergati dai futuri eroi nazionali Falcone e Borsellino.
Vale poi la pena di aggiungere che altre intuizioni dello scrittore di Racalmuto non hanno avuto alcuna fortuna presso i professionisti dell’anti-antimafia che solo per quelle poche righe mostrano di idolatrarlo. Per esempio l’intervista del 1970 a Giampaolo Pansa – quella sì davvero profetica – sulla “linea della palma”, cioè la mafia, che si spostava progressivamente dalla Sicilia verso il Nord Italia, cosa puntualmente accaduta nell’indifferenza pressoché generale, almeno fino ad anni recenti. Oppure, tanto per dire, la descrizione di un comizio della Democrazia cristiana in Le parrocchie di Regalpetra (1956), dove “la mafia ha qua e là paracadutato i suoi elementi più suggestivi”.
Detto questo, l’articolo di Sciascia lasciò – e lascia ancora, a trent’anni di distanza – il segno fra i variegati antimafiosi che non di rado hanno tutte le sue opere ben allineate nella libreria di casa. Uno di loro, Lillo Garlisi, racalmutese e sciasciano di ferro, oggi editore a Milano con Melampo, all’epoca lo condannò con forza. Ieri, in una discussione fra amici su WhatsApp, ha scritto: “Allora sbagliammo a non cercare di ricucire con Sciascia. La zona grigia trovò l’ideologia che le mancava. Lo regalammo al nemico”.
Forse in quell’articolo di trent’anni fa una parte profetica ci fu davvero. Ha poco a che fare con Borsellino e molto con l’antimafia di oggi. Scriveva Sciascia che, nel momento in cui qualcuno “si esibisce” come antimafioso, difficilmente qualcun altro oserà criticarlo o attaccarlo, anche con ragioni fondate, perché correrebbe “il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. E’ il tema centrale individuato da Francesco Forgione, già presidente della Commissione parlamentare oggi guidata da Rosy Bindi, fautore di un contrasto culturale ai clan più sociale e meno legato a icone e santini, nel suo recente libro I tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino 2016). “Per troppo tempo”, scrive Forgione, “l’antimafia non ha discusso di se stessa, della sua vita, del suo modo d’essere”. Lasciando così correre le aberrazioni, quando non il malaffare, anche quando qualche segnale poteva essere colto e qualche allarme lanciato. Non ha discusso, argomenta Forgione, proprio per la ragione indicata da Sciascia. Perché mettere in discussione l’operato di certe figure significava “incorrere nell’accusa di sovraesporle al rischio di diventare vittime dei killer mafiosi”. Così ai professionisti dell’anti-antimafia si è lasciato l’intero campo da gioco.