Assistevo ieri impietrita e affascinata alla prima conferenza stampa di Donald Trump dopo la sua elezione. Lo spettacolo, tra il patetico e l’improvvisato, con una scenografia da teatro d’avanguardia in cui appaiono in primo piano plichi anonimi, tutti uguali, buttati qua e là a segnalare il lavoro del gabinetto presidenziale degli ultimi mesi, chiama a rapporto tutte le scienze ermeneutiche e le arti dell’interpretazione per capire che tipo di fenomeno abbiamo davanti. Incoraggio dunque sociologi, politologi, esperti di media, filosofi, psicanalisti, studiosi di retorica, spin doctor e altri intellettuali di vario genere a concentrarsi sulla questione.
Purtroppo non aiuta la recente scomparsa di Umberto Eco, il quale avrebbe probabilmente stilato un ritratto puntuale di questa nuova creatura ibrida, frutto di un matrimonio perverso tra media e politica, che si appresta a governare la più grande potenza mondiale per i prossimi quattro anni.
Sono andata a rileggermi infatti la sua indimenticabile Fenomenologia di Mike Buongiorno e ci vorrebbe proprio un testo così, che aiuti a capire nel dettaglio a che cosa stiamo assistendo. Eco scrive su Mike: “Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (e questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) a un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, nemmeno il più sprovveduto”.
Parte di questa analisi può essere applicata a Trump. Trump non sa parlare. Non sa articolare un discorso, ripete frasi senza senso infarcite di “Great, Beautiful, Awesome”, cosa che non mette in inferiorità il pubblico. La padronanza linguistica, dai tempi dei sofisti è considerata uno degli ingredienti fondamentali del carisma politico. Eppure è un’arma a doppio taglio: in un mondo di ignoranti abituati al linguaggio delle pubblicità viste alla televisione, o agli smiley scambiati sui social network, il linguaggio “alto” di Obama o di qualsiasi politico competente intimidisce: sembra una diavoleria da azzeccagarbugli che riesce a giustificare qualsiasi cosa. E invece Trump parla come un americano medio rincretinito davanti alla tivù o a YouTube: frasi brevi, messaggio ripetuto fino alla nausea, esempi personali: I have a friend, he is great, really the greatest person in the world, uso spropositato di superlativi, tanto da arrivare a mettersi al primo posto in una classifica divina dichiarando che LUI sarà il più grande creatore di posti di lavoro che DIO abbia messo sulla Terra.
Il discorso è confuso, arrogante, a-politico. Si parla di amici suoi, degli affari suoi, di potenziali scandali suoi. Parla di un’offerta di un tale, suo caro amico a Dubai, di due miliardi di dollari per investire laggiù, che lui avrebbe rifiutato. Ma chi se ne frega? Perché dovrebbe interessare il pubblico? Beh, perché Trump, come Mike Buongiorno, vuole far vedere di essere uno di noi, con qualche miliardo in più, dunque niente langue de bois e ipocrisia politica, ma aneddoti non pertinenti, fatti, agitazione di mani quando cerca di spiegare la taglia di un microfono spia dentro alle camere d’hotel… Chiama per nome i suoi amici, per rendere chiaro che non sta lavorando sui ruoli che le istituzioni democratiche gli mettono a disposizione per servire la nazione, ma su persone specifiche, amici suoi, figli suoi, generi suoi, su una tribù insomma che grazie a relazioni di fiducia completamente indipendenti da un sistema di accountability, gli staranno dietro per fedeltà al branco.
Poi, quando pressato dalle domande deve giustificare i suoi rapporti con la Russia, gli allegati di un dossier dei servizi segreti, probabilmente falso, sui suoi interessi in Russia e la questione degli hacker e del loro ruolo nella campagna democratica, Trump comincia ad attaccare, insulta i giornalisti, si contraddice su Putin: dice che un Putin amico è un asset per gli Stati Uniti e ammette che i Russi sono dietro ai cyber attacchi che hanno destabilizzato la campagna. In un’inversione che richiede a questo punto più psicanalisi che semiotica, Trump paragona gli Usa alla Germania nazista (questo in un tweet del giorno prima), senza rendersi conto che è proprio la sua presidenza che evoca quel paragone. Poi si inalbera contro le fake news, anche qui attaccando con le armi con cui è stato attaccato durante tutta la sua campagna, basata su bullshitting permanente, sulle teorie del complotto più assurde, come quella per esempio che Obama non fosse americano…
FAKE NEWS – A TOTAL POLITICAL WITCH HUNT!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 11 gennaio 2017
Infine, sugli hacker russi, Trump usa la retorica tipica dei cospirazionisti e dei mercanti del dubbio e inizia a istillarlo: potrebbero essere i russi, ma chissà? Potrebbero essere anche i cinesi, o chiunque altro. E poi subito giù una dose di paranoia collettiva: “Tutti ci spiano, siamo circondati da spie e da nemici…” perfetta tecnica per distrarre il pubblico dalla domanda centrale, ossia il ruolo della Russia nei cyber-attacchi durante la campagna.
Ma il linguaggio cospirazionista e apocalittico ce l’aveva anche prima di essere eletto. Ciò che mostra questa conferenza stampa è che Trump non ha sicuramente usato questi mesi (da novembre a gennaio) per imparare cosa deve fare e dire il presidente di un paese democratico. Trump è sempre Trump. Il suo nuovo ruolo non gli dà una nuova faccia, a parte un arancione meno forte sui capelli. E purtroppo è proprio per questo che Trump ha vinto: perché non si vergogna di essere chi è, e questa arroganza mista ad ignoranza è scambiata dal pubblico per una virtù morale di onestà. Misteri della comunicazione. Da studiare a fondo nei prossimi quattro anni.