– B. dice una falsità

– che viene smentita da dati inconfutabili

– B. continua a ripeterla spudoratamente

Alla fine la gente non capisce più; né gl’interessa più sapere cosa è vero e cosa no; quel che conta, quel che vogliamo sapere, è quanti sono disposti a credere o a fingere di credere, schierandosi con B. Le menzogne, specie se spudorate (vedi Trump), sono segnali per interessi diffusi, ma determinati, in cerca di coalizione. Succede nella vita pubblica; e nelle migliori famiglie (quando in ballo ci sono le eredità).

Il mondo sviluppato, dopo il 1945, fu organizzato dando forza ai princìpi, più che agli apparati di propaganda: ed è cresciuto in libertà, pace e benessere. Ma oggi, se non condividiamo almeno alcuni fatti, il dialogo diventa impossibile. Prevalgono i rapporti di forza.

Da noi il mondo della post-verità dicono che è il frutto di 20 anni di egemonia televisiva di B. Altri dicono: è il prodotto di Internet; dove, protetti dall’anonimato, si possono diffondere “bufale” senza pagare dazio in perdita di reputazione. Beppe Grillo infine denuncia le bugie sparse dai media tradizionali; non casuali: alimentano “luoghi comuni” (“tutti lo dicono, dev’essere vero, lo dico anch’io”) e “ideologie”. Utili a chi? Prendiamo a esempio il Regno Unito.

Simon Parker ha scritto un bel libro sulla distruzione delle autonomie locali in Uk tramite l’austerità. Che questa non sia un’astrazione lo dimostrano i danni inflitti alla società inglese: la chiusura massiccia di librerie, asili, musei; la riduzione dei trasporti pubblici, della manutenzione stradale, dei servizi sanitari, dell’assistenza agli anziani e ai disabili, della prevenzione contro le inondazioni (nella foto: inondazione a Folkestone); l’aumento dei senza tetto, dei rischi di sommosse nelle carceri; ecc.

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Il silenzio, l’irrilevanza dei teatrini pesano, quanto le bufale. Non solo sui giornali c’è poco spazio per i problemi reali. C’è un’omissione più sottile: la separazione fra “narrazione politica” e mondo reale. Per cui alla fine nessun politico è responsabile dei problemi reali, nessuno ha meriti, nessuno ha competenze o soluzioni. Neppure la scienza: figuriamoci le scienze sociali.

In questo contesto la separazione delle pagine politiche dei giornali da quelle ‘sociali’ diventa pericolosa. Come scrive Chris Dillow, “presentando la politica come un ‘lui dice’, ‘lei dice’, la verità dei danni reali inflitti alla gente diventa sfumata; e la politica diventa un dibattito astratto… Per esempio George Osborne ha nascosto a lungo, con la sua retorica a favore della devolution, i tagli massicci inflitti agli enti locali, cioè, in altre parole, che era un centralista. I giornalisti della post-verità ascoltavano le sue parole invece di controllare i fatti, così gli hanno permesso di manipolare l’opinione pubblica”.

Il giornalismo ‘lui dice, lei dice’, continua Dillow, è classista: tende alla deferenza verso i potenti. Non solo questi hanno migliori capacità di P.R.; ma, “come osservò Adam Smith, c’è anche una diffusa ‘tendenza ad ammirare e quasi a idolatrare i ricchi e i potenti’ ”. Se poi i giornali si riempiono di dichiarazioni dei politici, la voce della gente comune (associazioni, esperti, think-thank) non trova spazio. In questo senso era interessante la posizione iniziale del Movimento 5 stelle sui talk show in TV: non partecipare (quasi mai). A condizione però di esprimere, in altre sedi, figure in grado di parlare con eccezionale conoscenza di causa dei problemi reali; insomma, di fare contro-informazione. Ma sembra che – a parte il blog di Grillo – il M5S non riesca molto in questo intento.

Il giornalismo della post-verità accentua la distanza fra la politica e la gente. Non a caso nei giorni prima del 4 dicembre pareva che il Sì avrebbe preso una valanga di voti; la stessa sorpresa avverrà con i referendum sul Jobs Act, e nessuno saprà perché. Uno spazio maggiore sui giornali alle condizioni di lavoro dei giovani, ai rapporti squilibrati fra datori e lavoratori, aiuterebbe a capire più che i dibattiti fra sostenitori del Sì e del No. Non mi riferisco (solo) alle inchieste, ma alla “narrazione politica”: incalzare i politici nel tempo, con la prima, la seconda domanda, poi la… centesima, su un problema concreto di cui si occupano.

Lo stesso vale per gli esperti, indipendenti o meno, cui giornali, Tv, e politica, in Italia, danno poco spazio: non i sapientoni generici, i tromboni; ma gente, anche giovane, che ha studiato un problema e ha un’idea da proporre. Spesso invece in Tv, a uno esperto di una cosa, si chiede tutt’altro. (Per la cronaca: ‘economista’ oggigiorno non significa nulla. Gli economisti sono iper-specializzati: quando vanno oltre il loro settore, esprimono opinioni da bar, né più né meno). Forse i direttori dei giornali dovrebbero chiedersi se la divisione fra ‘giornalisti politici (parlamentari)’ e gli altri produca buon giornalismo.

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