Lei viene cosparsa di benzina e le viene dato fuoco. Si costituisce il suo ragazzo (ex?) e l’accusa sarebbe di tentato omicidio. Un tentativo di mutilazione come un altro. Come quando ti buttano acido sulla faccia, perché l’hai lasciato e hai detto di no. Che tu sia italiano o immigrato non conta perché è il sessismo che la fa da padrone.
Lei riporta ustioni “non gravi”, da quel che dicono i media, e da qui in poi c’è qualcosa che non funziona. Non si tratta del fatto che lei dica che non è stato lui, nonostante l’evidenza – o quella che viene definita tale – che la Procura espone al pubblico. Non si tratta degli andirivieni, delle indecisioni, della co-dipendenza psicologica espressa in tentativi di salvataggio, commozione, senso di colpa, forse, perché c’è chi pensa, sbagliando, che un uomo, con un gesto del genere, dimostri tanto ma tanto amore. Una passione intensa che brucia tutto, i suoi neuroni in primo luogo e poi anche lei, fino a ridurla in cenere. Ma è l’amore, “troppo amore” dice la D’urso nella sua trasmissione, tentando di fare capire alla ragazza che è stato lui.
Che la D’Urso abbia tentato di entrare nel codice linguistico della ragazza o che abbia espresso in salsa nazionalpopolare quel che poco ci convince il punto non è lei, che fa il suo mestiere e lo fa da sempre con uno stile da polpettone pietoso che raggiunge le viscere della gente prima che il loro cervello. Il punto non è lei né la maniera di Selvaggia Lucarelli di scagliarsi contro e infine giudicare la ragazza malamente sottolineando le frasi che la vittima non avrebbe dovuto dire.
Quello che non funziona in tutta questa storia è che si immagina una vittima come una fonte coerente di informazioni e se non accetta di diventare testimonial contro la violenza sulle donne viene immediatamente inserita nella parte della lavagna dedicata alle persone cattive. E arriviamo alla scoperta dell’acqua calda. Una donna che subisce violenza non deve essere istruita, con una dizione perfetta e non deve corrispondere al modello della santa icona dell’antiviolenza che non sgarra di fronte ad un dibattito sulla sua pelle.
Non si capisce che è lei che deve raccontarsi e che nessuno può farlo al posto suo. Non si capisce che fomentare la via del giustizialismo puntando il dito contro quella che infine viene descritta come fosse incapace di intendere e volere non vuol dire altro che premere sull’acceleratore dei programmi istituzionali repressivi che bypassano la volontà delle donne uniche a poter denunciare una violenza subita e uniche a poter maturare consapevolezza sul fatto di voler salvarsi o meno.
Il comportamento di chi vorrebbe, paternalisticamente, salvarla contro il suo stesso volere non fa che acuire la distanza tra quella ragazza e il resto del mondo, vedendo lei unita più che mai a lui che non può neppure essere definito un mostro senza perciò scoprire tratti di complessità. Come se fosse una cosa nuova sapere che esiste un legame di dipendenza psicologica tra vittima e carnefice e che questo non rende la vittima meno vittima e il carnefice meno carnefice. Questo è un meccanismo relazionale che spiega perché, in alcuni casi, lei conceda un ultimo appuntamento, per parlare, e poi muoia per mano del suo ex. Perché non esiste bianco o nero e finché tratteremo la questione della violenza sulle donne in questo modo non potremo mai prevenirla.
Non è la narrazione di presentatrici tivù e opinioniste che ci interessa ma il fatto che se speriamo di trovare in ogni vittima una persona che sia precisamente coerente, distaccata, sbagliamo. Ci sono vittime che tornano indietro, ritornano con gli ex, nonostante siano state picchiate, maltrattate, e poi arriva chi dice che sono quindi complici, colpevoli per quello che è successo. Non funziona neppure così. Non puoi legare una donna che vuole tornare dall’ex che la picchia. Chi si occupa di violenza sulle donne lo sa perfettamente. Non puoi neppure imporre irrevocabilità di querele e percorsi rosa che passano solo da caserme e polizie, perché così otterrai solo silenzio o, come spesso accade, la rottura da parte della vittima, con tutti i legami familiari, amicali, che lei vive come costrittivi, impositivi.
I tempi della vittima vanno rispettati, anche se è doloroso, perché nessuno può sostituirsi alle donne che subiscono violenza sovradeterminandone le decisioni. La scelta è la sua e dato che parliamo di dinamiche tossiche, è lei che deve dire basta o la vedrete dare di matto per l’astinenza, urlare al sequestro se la chiuderete in una stanza per non farla andare da lui, isolarsi se la condannerete ad essere sedata, e chiuderete una porta che deve restare sempre aperta. Qualunque sia il suo tempo e la sua decisione deve sapere che non deve obbedire a voi, ai media, alle pressioni di chi la vuole nominare portavoce antiviolenza, ma che, qualunque cosa accada, vi troverà sempre lì, a darle una mano, quando sarà pronta.