Cosa resta, cinque anni dopo, degli inchini, della biscaggina, del Salga a bordo, cazzo, del più incredibile dei naufragi? Cosa resta della “più italiana” delle tragedie: un comandante che fa un casino e poi scappa e di un ufficiale che lo rincorre per ricordargli i suoi compiti, la sua divisa. Cinque anni dopo il disastro della Costa Concordia (32 morti tra passeggeri e membri dell’equipaggio) l’ex capitano Francesco Schettino aspetta la sentenza definitiva dopo la condanna in appello a 16 anni: la Cassazione si pronuncerà il 20 aprile. La Procura generale crede che la pena più giusta siano 27 anni. La difesa insiste che le colpe di Schettino andrebbero meglio distribuite con quelle degli altri ufficiali della nave (usciti dal processo con dei patteggiamenti).
Cinque anni dopo, invece, il capitano di fregata Gregorio De Falco non è più in una sala operativa della Guardia Costiera. Si trova al comando logistico della Marina militare, a Nisida, vicino a Napoli. Niente più motovedette, ma beni patrimoniali e immobili. Il trasferimento l’ha voluto lui, dopo che è stato “promosso”, secondo il Corpo, o “rimosso”, secondo lui, dagli incarichi operativi. Nel frattempo De Falco ha fatto un ricorso al Tar e ha perso.
La sua faccia, tuttavia, resta la copertina del maxi-soccorso dell’isola del Giglio, a capo del coordinamento di 46 tra navi e motovedette e e 8 elicotteri. Un’operazione celebrata in tutto il mondo, non solo per gli urlacci che gli toccò fare a notte fonda, con Schettino che – già all’asciutto – chiedeva a un ufficiale di Livorno se c’erano morti e quanti, mentre ancora dovevano essere sbarcate centinaia di persone. Gridò, è vero, ma non c’è mai stato niente di personale, dice oggi De Falco al Fatto. Lui voleva in qualche modo “salvare” Schettino. “Ma semplicemente nel senso che volevo salvare le persone a bordo e per farlo dovevo passare da lui”. Il comandante della nave era ancora in tempo per riscattarsi, nonostante quello che aveva fatto fino a quel momento: quella manovra scellerata, le mezze verità alla radio, la fuga sulla scialuppa, la rassicurazione alla Capitaneria che sarebbe risalito che poi diventerà l’ultima bugia. E, prima di tutto, un salvataggio iniziato in ritardo perché per un’ora, dalla plancia di comando della Concordia, nessuno si decise a dire cos’era successo. Era successo che sul fianco di una nave da crociera con 4mila persone c’era una falla di 70 metri dopo lo schianto contro gli scogli delle Scole, famosi in tutta Italia. Con quell’ora, buttata tra le mezze verità balbettate dalla radio della nave da crociera, potevano essere salvati anche quei 32. “Lo ha detto l’ex comandante generale, l’ammiraglio ispettore Marco Busco in un’audizione in Parlamento ed è quanto risulta anche dalla perizia per il tribunale del collegio di consulenti presieduto dall’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. Anche io ho sempre ritenuto che fosse possibile salvare tutti”.
De Falco, la sera del 13 gennaio è a casa che sta lavorando al computer.
Arriva mia moglie e mi porge il telefono che squilla. Sono le 22,30 circa: è la sala operativa che mi dice che c’è una nave passeggeri con 1800 persone in difficoltà vicino alla costa. In realtà i numeri erano altri, ma mi dissero quella cifra per spingermi ad andare. Indossai un paio di jeans e attraversai il cortile per andare in sala operativa. Incrociai il comandante di una motovedetta e gli dissi subito di accendere i motori. In quel momento io ero convinto che la nave fosse nella zona di Livorno, perché la mia delega finiva alla provincia. Elba esclusa.
All’inizio le informazioni sono una frittata di cose confuse e frammentarie.
Io all’inizio credevo che l’emergenza fosse a Livorno, mentre era al Giglio, cioè a 75 miglia di distanza. Dalla prima comunicazione ci dicevano che la nave era a Savona, invece era diretta a Savona. Dalla Concordia parlavano di un black-out. All’inizio la situazione sembrava controllabile. In realtà passò troppo tempo prima che ci dicessero qual era la situazione reale.
Nonostante questo, quella storia è andata meglio di quanto si temesse. I giornali di tutto il mondo l’hanno indicata come un eroe. Ma quella sera c’è stato chi prima di lei ha capito che si doveva intervenire, che sulla Concordia c’era qualcosa di strano.
Alessandro Tosi, l’operatore che prese la telefonata dai carabinieri di Prato e poi cominciò a fare le domande appropriate al comando della Concordia. Dalla nave rispondevano cose inverosimili: con un black-out la nave non si piega su un fianco. Lui capì per primo che stavano mentendo e serviva un intervento. Il suo carattere livornese un po’ burbero lo ha aiutato.
“Salga a bordo, cazzo” è un’espressione diventata un simbolo, tanto che è diventata quasi una frase di uso corrente. Si pente di averla usata?
Assolutamente no, era l’unico modo che avevo per cercare di farmi ascoltare. Ero consapevole che avevo bisogno della autorità da bordo. Guardi, non serviva un comandante superman, ma solo qualcuno che avesse autorità e conoscenza della situazione che disponesse l’organizzazione delle operazioni a bordo e che ci aiutasse a fare le nostre considerazioni fornendoci elementi di conoscenza reali e diretti. Invece non ci fu nessuno a bordo che usò l’autorità di prendere decisioni anche semplici, quasi banali.
A bordo serviva qualche autorità che prendesse decisioni banali, come far salire più gente sulle scialuppe
Per esempio?
La costa dell’isola era a poche decine di metri dalla nave, sulle scialuppe si sarebbe potuto imbarcare più persone rispetto al limite consentito: due, tre, quattro ciascuna. Erano pochi colpi di remo. Giuseppe Girolamo, un musicista, lasciò il posto a un bambino, pur nella consapevolezza di non saper nuotare. Era chiaro che si stava sacrificando. Non era un tragitto ampio, in cui c’era bisogno di viveri, attraverso l’Oceano Indiano. Ma non essendovi più l’autorità a bordo, nessuno assunse la – tra l’altro modesta – responsabilità di assumere quella decisione.
Chi doveva dare un ordine del genere non c’era, non c’è mai stato.
A me che ero coordinatore dei soccorsi serviva qualcuno che si assumesse la responsabilità: la responsabilità significa fare delle scelte. Serviva qualcuno che ci definisse la situazione per capire che decisioni dovevo prendere e su chi potevo contare. Quando ho parlato in quel modo, il comandante della nave era ancora in tempo per riprendere in mano la situazione e aiutarci nei soccorsi. Lo avesse fatto, per come conosco l’Italia e gli italiani, gli avrebbero steso i tappeti rossi, anche dopo quel comportamento.
Andrebbe a cena con Schettino, avrebbe voglia di capire meglio cosa gli passò in testa quella sera?
Non vedo per quale motivo dovrei avere piacere a condividere qualcosa con quella persona. Guardi, in quel momento io ero di fatto il responsabile del coordinamento dei soccorsi, non ero solo Gregorio De Falco. Lo stavo esortando a riprendere il comando e a tornare a ricoprire il suo ruolo. Non ho mai avuto da dire niente alla persona, se non le considerazioni da cittadino che ciascuno ha poi sentito di dover fare.
Nel processo Schettino si è difeso cercando di scaricare sugli altri ufficiali di bordo la responsabilità dei momenti precedenti allo schianto e poi sul timoniere che secondo lui non capiva i suoi ordini.
E’ un tentativo inqualificabile di fuggire le responsabilità pertinenti il ruolo di Comando perché significa tentare di attribuire la massima colpa per decisioni mai prese e quelle intempestive all’ultimo anello della scala gerarchica, all’ultimo arrivato. Il comandante tra l’altro dette al timoniere una caterva di indicazioni in pochi secondi.
Lei in quei mesi è stato considerato un eroe. Rovesciamo la prospettiva. C’è qualcosa che secondo lei poteva essere fatto meglio?
Sia le scelte e le valutazioni operative, sia gli assetti tattici, in quelle circostanze sono stati le uniche decisioni possibilied efficaci. Tra i vari apprezzamenti resta significativo, per la indiscussa capacità tecnica ed operativa della Us Coast Guard, l’apprezzamento espresso dall’ammiraglio Brian Salerno, allora ai vertici della Guardia costiera americana, che durante un’audizione al congresso degli Stati Uniti a domanda rispose di non avere nulla da suggerire ai colleghi italiani, il cui comportamento era stato “ineccepibile”.
Nonostante la celebrità, non cercata, è riuscito a non farsi risucchiare dal sistema informativo. Niente presenze in tv, qualche intervista sui giornali. E’ come se avesse evitato di cadere nella sua caricatura.
E’ facile: basta distinguere i due piani, quello personale e quello del ruolo di servizio, per rendersi conto che ogni fatto che riguarda il servizio sfugge alla disponibilità personale del pubblico ufficiale ed è espressione della funzione esercitata. A qualsiasi livello. Non era Gregorio De Falco che aveva fatto un record sui 100 metri di corsa, ma l’esercizio di una funzione amministrativa di interesse pubblico. Il soccorso ha avuto inizio ed è proseguito pur in assenza di una richiesta di soccorso dalla nave. Ho dovuto io assumere ogni responsabilità per aver deciso di requisire e dirottare le navi in transito e far muovere motovedette ed elicotteri. E’ come ufficiale di Capitaneria che mi sono preso quelle responsabilità, a fronte vi era la vita di oltre 4mila persone. Tra l’altro, se davvero si fosse trattato di black out, il danno per l’eventuale cattivo esercizio della funzione di soccorso si sarebbe tradotto per me e forse per il sottocapo Tosi, nell’obbligo di risarcire ogni danno.
E come ha gestito quel momento di celebrità? Come si è difeso?
All’inizio era facile perché eravamo in fase di indagini preliminari e non potevo proprio parlare. Poi comunque il comando generale ha eretto una barriera impenetrabile attorno e l’ha mantenuta ben oltre il 9 dicembre 2013, quando resi testimonianza dinanzi al tribunale di Grosseto.
C’è qualche storia di quella sera che le è rimasta dentro?
Al primo anniversario andai al Giglio. A un certo punto mi accorsi che mi stavano seguendo delle persone. Era una famiglia sarda con un bambino piccolo, si chiama Giuseppe. La sera del naufragio erano sulla scialuppa che cercava di calarsi sul lato sinistro, ma rimase incastrata. Così dovettero risalire lungo la fiancata della nave e scendere dalla biscaggina di poppa. Il bambino all’epoca aveva pochi mesi, si dimenava forse per la paura, per il freddo, il buio. Il padre ce l’aveva in braccio, il bambino cadde. Poco prima, però, avevamo dato ordine alle motovedette di mettere in mare tutte le zattere gonfiabili e spingerle sotto bordo alla nave. Il bimbo cadde lì. La nonna ha scritto su un post su facebook in cui ha detto che spera che un giorno Giuseppe diventi ufficiale della Guardia Costiera.
Una volta per tutte: gli inchini erano cosa nota e tollerata?
Non ne avevo mai sentito parlare prima. Solo con una lunga ricerca del comando di Roma si è scoperto che mesi prima era stata effettuata una navigazione in vicinanza della costa del Giglio, credo a distanza di quasi mezzo miglio dalla costa, ma in quel caso la nave procedeva a 5 nodi, perfettamente in assetto. Non era vietato avvicinarsi, è vietato fare manovre pericolose. Quella sera la nave andò in derapata verso l’isola del Giglio. Una manovra scellerata.
Cosa mi fa arrabbiare? La compagnia in quelle ore non collaborò in modo efficace. Poi lo hanno ammesso anche loro
C’è qualcosa di quella notte che le fa andare ancora il sangue alla testa?
Oltre alla assenza di gestione dei soccorsi a bordo, l’assenza di gestione della crisi da parte della Costa. La compagnia in quelle ore non collaborò in modo efficace. Su richiesta di un mio collega di Livorno la società inviò in Capitaneria alcune persone che giunsero intorno alle 3.30 , ma la loro presenza non incise quasi per nulla. Durante le indagini di polizia giudiziaria condotte dalla Procura di Grosseto appresi che tra loro vi era un signore che aveva comandato proprio quella nave, in precedenza. Non era con noi in sala operativa, ma in una stanza attigua e credo che non l’avesse fatto presente a nessuno. A livello generale, comunque la gestione della crisi da parte della società fu pessima come ha ammesso tempo dopo lo stesso l’ad di Costa, Michael Thamm.
Ha detto più volte che quello che lei ha fatto è normale, che non c’è niente di eroico. Che era “la voce di tutti i marinai.
Ho fatto quello che sentivo essere il mio dovere etico; io ed il mio piccolo staff eravamo in grado di affrontare anche un evento di quelle proporzioni . Quando ho usato l’espressione “la voce di tutti marinai” ho inteso enfatizzare che ognuno di essi avrebbe richiamato l’uomo a tenere un comportamento responsabile.
Troppi sfuggono le responsabilità connesse al proprio ruolo che pur si ricopre con piacere sul versante degli onori
Questo scivolamento di significato, per il quale chi fa il proprio dovere passa per eroe solo perché dall’altra parte c’è chi non fa il proprio dovere, è secondo lei un po’ una malattia italiana?
Di sicuro troppi sfuggono le responsabilità connesse al proprio ruolo che pur si ricopre con piacere sul versante degli onori. Si tende sempre a rimandare, a delegare, a scaricare sugli altri. Così come a processo si è tentato di fare con il timoniere. Ma mi viene in mente anche la tragedia del Moby Prince, nel 1991, quando nessuno eccepì nulla che fosse il marinaio di leva all’ascolto radio della Capitaneria indagato per non aver sentito il mayday, mentre invece era Livorno Radio ad avere quella responsabilità. In generale è così che si celano le vere responsabilità.
Un incidente del genere si potrebbe ripetere?
Non si può ripetere perché è un’assurdità che si sia verificato. E’ un atto scellerato, non raro, ma unico. Ecco, se c’è una cosa che mi rese davvero perplesso fu il Collegio Capitani (associazione dei comandanti di nave, ndr) che disse pubblicamente che sono cose che capitano. Parole incuranti del ridicolo. Un altro vizio nostro, quello della difesa della corporazione.
La salutano ancora per strada, come 5 anni fa?
Si, succede spesso, soprattutto a Livorno. Qualcuno che mi sorride, si avvicina, mi chiede il permesso di salutarmi. E’ una sensazione molto bella. E’ la cosa che mi ripaga, anche di qualche amarezza.