di Claudia De Martino *
Il discorso del Segretario di Stato John Kerry su Palestina e Israele, nel quale quest’ultimo ha per la prima volta ammesso pubblicamente che il numero eccessivo degli insediamenti attualmente presenti in Cisgiordania rende ormai impossibile la soluzione dei due Stati, è stato giustamente recepito dalle autorità e dalla stampa palestinese come “troppo poco, troppo tardi”. In effetti sembra che l’amministrazione Obama uscente abbia voluto più che altro affermare una posizione morale vis-à-vis degli israeliani, piuttosto che tentare in estrema ratio di imporre un nuovo corso agli eventi.
Dopo il deludente settimo congresso di al-Fatah, recentemente conclusosi con l’ennesima riconferma alla presidenza dell’ottuagenario Abu Mazen, e le purghe interne al movimento degli ultimi mesi, e nonostante la rincorsa di un riconoscimento ufficiale all’Onu come 194esimo Stato ufficialmente membro dell’organizzazione, la Palestina è disperatamente confrontata ad un conto alla rovescia nella ricerca di una strategia prima dell’imminente insediamento della Presidenza Trump.
Il 30 dicembre scorso Mūsā Abū Marzūq, vicepresidente di Hamas, candidato a dirigere l’organizzazione nell’immediato futuro dopo la conclusione del mandato di Khaled Meshʿal, attuale capo dell’ufficio politico, ha indicato una possibile, per quanto controversa, direzione: la trasformazione della Palestina in una federazione di entità indipendenti e sovrane. Una posizione realista che tiene conto dell’impossibilità, ormai dimostrata, di addivenire ad un accordo tra le due grandi forze politiche palestinesi che preclude la possibilità di elezioni politiche parlamentari e presidenziali nazionali dall’ormai lontano 2006. Rinunciando all’ormai vuoto mito della riconciliazione nazionale, definitivamente archiviata come non percorribile, Marzūq propone che Gaza e la Cisgiordania diventino di fatto due entità separate unite da flebili legami federali. A suo parere, il nodo esistente è quello tra due principi importanti ma mutualmente escludenti – democrazia o unità – e poiché entrambi non sono perseguibili, occorre favorire il primo a discapito del secondo.
La creazione di due diversi Stati in Palestina, già echeggiata in passato da varie fonti come la “soluzione dei tre Stati”, non è nuova ma è la prima volta che viene presentata come un’opzione possibile da parte palestinese. Incontra, però, numerose resistenze, soprattutto da parte dell’opinione pubblica palestinese che si è detta delusa dai propri leader e dall’attaccamento al potere dimostrato dalle due fazioni. Hamas spiega la sua posizione con il fatto che la situazione peggiore sia l’attuale stallo e che ogni altro scenario sia preferibile a questa condizione, di cui il movimento islamico da una lettura più critica di al-Fatah, maggiormente favorevole allo status quo.
Lo status quo per Hamas non è tale, perché suscettibile di ulteriori evoluzioni negative a partire dal prossimo febbraio. Innanzitutto perché il partito La casa ebraica di Natftali Bennett ed una parte dell’attuale governo israeliano sono favorevoli all’annessione dell’area C (ovvero delle aree non popolate della Cisgiordania, che costituiscono circa il 60% del suo territorio) e vorrebbero farlo ufficialmente nel 2017, in secondo luogo, perché il futuro presidente Trump ha annunciato la possibilità di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, conferendo ulteriore ufficialità a Gerusalemme come capitale indissolubile e indivisibile dello Stato d’Israele, e infine perché per la maggioranza dei Palestinesi l’apartheid è già una realtà quotidiana e l’opzione di uno Stato “ebraico e democratico” non si pone affatto.
Per concludere, la posizione federale di Hamas vorrebbe imprimere un nuovo dinamismo alla scena politica palestinese dando al movimento islamico la possibilità di condurre elezioni all’interno della Striscia e maggiore libertà di movimento e alleanze a livello internazionale. Tuttavia è chiaro come questa scelta vada incontro ai partiti di estrema destra israeliani, che da lungo tempo avocano una separazione tra Gaza – priva di rimandi biblici – e Giudea e Samaria, destinate a diventare parte integrante di un futuro “Grande Israele”. Per quanto, dunque, l’opinione pubblica palestinese al 65% (sondaggio di dicembre dell’Associated Press) non creda più alla soluzione dei “due Stati”, abbracciare questo strano federalismo proposto da Hamas potrebbe significare dire addio a qualsiasi speranza di un riconoscimento in quanto nazione oppressa che continua a rivendicare la propria unità a dispetto delle barriere territoriali e della dispersione geografica. Il federalismo in Palestina non si presenta affatto come un’opzione progressista e democratica, ma come il lento abbandono di una causa nazionale frammentata in mille rivoli, antagonismi e veti incrociati da una classe dirigente indegna di tale compito.
* ricercatrice Unimed