La magistratura contabile annota che l'onere per le casse pubbliche "risulta ancora notevole" e "il superiore interesse al buon andamento amministrativo suggerisce celerità" nel chiudere definitivamente l'ente. La cui sopravvivenza ha comportato una "costosa conflittualità": la società ha chiesto allo Stato più di 300 milioni per le attività già svolte e ne è nato un ulteriore contenzioso, che si aggiunge a quelli con i privati. Il governo non si pronuncia
Altro che rimettere mano al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, come intendeva fare l’ex premier Matteo Renzi e come ancora sognano gli alfaniani. La grande opera per eccellenza cara a Silvio Berlusconi e stoppata da Mario Monti, ma mai davvero uscita dai desiderata della politica, va archiviata del tutto il prima possibile. A metterlo nero su bianco è la Corte dei Conti, che in una nota dedicata ai rapporti contrattuali della società Stretto di Messina annota, tra l’altro, come il solo fatto di mantenere in vita la concessionaria comporti per le casse pubbliche “un onere annuo sceso sotto i due milioni di euro solo nel 2015″ e “ancora notevole“. Pertanto, “il superiore interesse al buon andamento amministrativo suggerisce celerità nella liquidazione della concessionaria”. Questo anche perché paradossalmente la società, che è pubblica – la controlla l’Anas, che a sua volta fa capo al Tesoro, mentre i soci di minoranza sono Rfi e le regioni Calabria e Sicilia – ha in atto un contenzioso con lo Stato, da cui pretende di ricevere 300 milioni per “pregresse attività”. Un quadro “contrario ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo”, sottolinea la Corte. Nonostante questo, “non risultano iniziative della Presidenza del Consiglio e del Ministero delle Infrastrutture per por fine al contrasto con la concessionaria”.
La magistratura contabile parte dalla ricostruzione dell’annosa vicenda del Ponte: “La sottoscrizione, nel marzo 2006 (da parte del governo Berlusconi, ndr), del contratto per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, non fu condivisa dal governo (Prodi, ndr) insediatosi all’inizio della XV legislatura (maggio 2006), mentre fu confermata, nei suoi effetti, dall’esecutivo che aprì la successiva (2008). L’incertezza sulla fattibilità dell’opera ha prodotto la richiesta di danni nei confronti dell’amministrazione e l’accordo transattivo del 2009, con nuove condizioni concesse alla parte privata”. Gli appaltatori a quel punto dichiararono il recesso, “invocando le favorevoli clausole sottoscritte nel 2009, pur contestandone la parte pubblica la loro applicabilità. A sua volta, il d.l. 87/2012 stabilì che la caducazione dei vincoli contrattuali comportasse un mero indennizzo; ne è seguito un rilevante contenzioso, tuttora in corso, tra la società concessionaria Stretto di Messina e le parti private”. Ma c’è di peggio: “La concessionaria ha richiesto, nei confronti delle amministrazioni statali, per le proprie pregresse attività, più di 300 milioni, da cui un ulteriore contenzioso“. Che va a sommarsi a quello con i privati a partire da Salini Impregilo, il gruppo delle costruzioni capofila del consorzio che aveva vinto la gara per la realizzazione dell’opera.
Poi, il 15 aprile 2013, la società Stretto di Messina è stata posta in liquidazione. Solo che “il termine annuale per la sua cessazione – osserva la Corte – è da tempo scaduto”. Di qui la raccomandazione: “Considerata l’assenza di attività rilevanti, è necessario ridimensionare i costi della società inclusi quelli degli organi sociali che la legge, originariamente, limitava implicitamente all’anno previsto per la liquidazione”. Questo alla luce del fatto che i costi di produzione solo nel 2015 sono per la prima volta scesi sotto i 2 milioni di euro, attestandosi a 1,8 milioni. Nei due anni precedenti le uscite sono ammontate rispettivamente a 8,2 e 2,7 milioni.
Tutto considerato, “risultano necessarie iniziative volte a rendere più celere la liquidazione della concessionaria, dal momento che, prevedibilmente, le pendenze giudiziarie con le parti private si protrarranno ancora per un lungo periodo e la sopravvivenza della società ha comportato una costosa conflittualità fra entità che dovrebbero, al contrario, agire all’unisono nel superiore interesse del buon andamento amministrativo”. I giudici contabili ritengono dunque “opportuno che gli azionisti” della Stretto di Messina “compiano una specifica valutazione circa i vantaggi conseguibili dal contenzioso attivo, a fronte di costi certi per la permanenza in vita della concessionaria”.
In questo quadro, il governo tace: “Seppur sollecitati dalla Corte ad esprimere una valutazione sulla mancata liquidazione della società nei tempi previsti dalla normativa, la Presidenza del Consiglio, il ministero delle infrastrutture ed il ministero dell’economia non si sono pronunciati”. Del resto l’ex premier Renzi a fine settembre 2016 aveva rispolverato il progetto sostenendo che avrebbe creato “100mila posti di lavoro“.