Scuola

Università, come (non) si premia il merito negli atenei italiani

Da quando il ministro Mariastella Gelmini ha messo le università al loro posto, con l’ultimo ritocco al lavoro dei ministri precedenti, lo Stato premia i bravi e penalizza i cattivi, distribuendo tra le università italiane una quota premiale di fondi in base a una scala di valori gestita da un apposito organo, Anvur, il cui costo non è del tutto insignificante. A ben vedere, i fondi cosiddetti premiali sono fondi del gran calderone che, prima, erano altrimenti assegnati: non sono soldi nuovi, ma denaro riciclato. Anzi, i fondi per l’alta formazione sono sempre meno, in tutto, dopo anni di tagli: l’Italia spende per l’istruzione circa il 4% del Pil, il 20% in meno della media europea, con una spesa pubblica pari al 52% del Pil, l’8% per cento più della media europea.

Quest’anno il risultato della premiazione è stato comunicato durante le festività invernali, forse per annegare gli esiti spassosi nelle bollicine augurali: un verdetto più da satira televisiva che da consesso serioso di valutazione scientifica. L’Università per Stranieri di Perugia migliora come se, negli ultimi 4 anni, i suoi docenti fossero stati baciati da Apollo in persona, il Dio della luce e dell’ordine, della musica e della poesia, dell’arte e della scienza medica, nonché della divinazione. Costoro hanno più che raddoppiato la propria performance. L’ateneo della ministra uscente, che ne fu rettrice dal 2004 al 2013, passa in testa a tutti con un’accelerazione bruciante che gli ha permesso di migliorare la propria quota premiale da 970 mila a più di 2 milioni di euro, il 115% in più rispetto all’anno prima. E per una sorta di contrappasso, la sede più penalizzata è quella di Siena: meno 39%. La bilancia governativa oscilla, giacché per anni il rettore senese fu Luigi Berlinguer, pioniere dell’università meritocratica in Italia, che somministrò all’accademia la prima devastante (cosiddetta) riforma per entrare, così trionfalmente nel nuovo millennio.

Ecco allora che Anvur, figlio di Miur, come venne a suo tempo rappresentato il nuovo organismo di valutazione da una felice satira in rete, ha fatto il suo bravo lavoro. Nessun dubbio che la procedura burocratica sia stata trasparente e oggettiva, che i revisori internazionali siano stati irreprensibili e competenti, che la buona fede abbia guidato tutta la vicenda. Vista sul campo di battaglia, però, la spada di Anvur poco assomiglia a Togari, la spada della giustizia, ma ricorda piuttosto la pendula spada di Damocle o la Curtana spezzata di Tristano, la cui punta restò ficcata nel cranio di Moroldo, che brandiva peraltro una spada avvelenata. Se rivelo il verdetto a qualunque collega straniero, raccolgo un sorriso, quello che gli amici stranieri spesso ci riservano con simpatica sufficienza. E chi ha un po’ di pratica di peer review, sa come si possono gestire queste cose, tanto se si tratta di una richiesta di pubblicazione, quanto di una proposta di ricerca o di un programma o un progetto di ampio respiro internazionale. Le spade sono molte e molto variegate, soprattutto se uno studioso si valuta in base a due pubblicazioni due, per di più già valutate da altri e certamente da specialisti; e nulla è più innaturale dell’ovvio.

I vecchi baroni sono però confortati dalla circostanza che la nuova ministra non sia un’accademica, e neppure laureata. Magari sarà così brava da elemosinare qualche soldino in più, visto che i soldi dati a tutta la ricerca accademica italiana non sarebbero bastati a comprare Higuain. E bisogna capire bene il nostro paese: la spesa per servizi generali (ossia le spese per gli organi elettivi e gran parte delle spese per il funzionamento della pubblica amministrazione, oltre agli interessi sul debito) tocca il 9% del Pil, mentre la media europea è meno del 7: solo di costo vivo, governance e burocrazia annessa costano alla gente italiana il 30% in più che all’europeo medio. Sempre che l’europeo medio non sia parente del pollo di Trilussa; sempre che qualche ateneo non abbia la brillante e mirata idea di conferire una laurea honoris causa o una cattedra ad personam per chiara fama.