C’è una Milano che pochi conoscono, teatro di atroci violenze ma anche di indomita resistenza alle persecuzioni razziali. È la città raccontata in un libro denso di testimonianze, mappe e fotografie: I luoghi della memoria ebraica di Milano, di Francesca Costantini (Mimesis Edizioni), primo volume di una collana, Topografia della memoria, che si propone, grazie a nuove fonti archivistiche, testimoniali e documentarie, di ricostruire e di raccontare la storia dei luoghi milanesi di resistenza al fascismo e all’occupazione nazista.
Delle famigerate leggi “per la difesa della razza” emanate da Mussolini nel settembre 1938, una riguardava in particolare la scuola, dalla quale vennero espulsi tutti gli allievi, gli insegnanti e il personale non docente di religione ebraica. E proprio dalla scuola “inventata” e attrezzata in breve tempo in due villette di via Eupili, zona Sempione, inizia la ricognizione di Francesca Costantini, che grazie alla sua collaborazione con il Cedec (Centro di documentazione ebraica contemporanea) ha avuto accesso a importanti documenti e testimonianze.
“Inventare è la parola giusta, perché mancavano le strutture per ospitare tutti gli studenti: si faceva lezione anche in cantina” ricorda Annamarcella Falco Tedeschi. E che lezioni! Sotto la direzione di Joseph Colombo (che nel dopoguerra sarà preside, amatissimo, anche dello storico liceo classico Berchet) alle ore di studio venivano affiancate importanti iniziative culturali: dal coro diretto dal maestro della Scala Vittore Veneziani, alle conferenze tenute dallo scrittore di teatro Sabatino Lopez, alle lezioni di disegno con il pittore Carlo Vitali. Tutti ebrei, tutti espulsi dai rispettivi ambiti di lavoro.
La mappa della Milano ebraica sotto le leggi razziali prosegue con la Mensa dei bambini di via Guicciardini, in città Studi. Voluta e finanziata da Israel Kalk, un ebreo emigrato in Italia dalla Lettonia dopo la prima guerra mondiale, serviva a garantire un pasto ai bambini ebrei stranieri presenti a Milano. Che erano tanti, tutti figli degli oltre duemila profughi giunti in Italia prevalentemente da Germania, Austria e altri Paesi dell’Est Europa per sfuggire alle persecuzioni hitleriane. Dopo il 1938, la loro situazione, già critica, divenne pesantissima: non avevano il diritto di stabilirsi in Italia né di lavorare e vivevano in clandestinità, ammassati in locali sovraffollati in scarse condizioni igieniche.
Per i profughi, ma anche per i molti ebrei milanesi ridotti in povertà dalle leggi razziali che avevano loro tolto il lavoro, funzionava anche un presidio sanitario: Gino Neppi, “medico di reparto” alle dipendenze del Comune fino al 1938, lo aveva organizzato, a partire dal 1940, nella condotta medica di via Panfilo Castadi (zona Stazione Centrale) che gli era stata affidata dal Comune. Per tre anni, tutti i giorni dalle 15 alle 18, furono visitati e curati oltre duemila ebrei milanesi e centinaia di profughi ebrei. Grazie alla discriminazione razziale che li aveva allontanati dagli ospedali, all’ambulatorio lavoravano i migliori specialisti della città. Gino Neppi fu arrestato e deportato ad Auschwitz, da dove non tornò.
Nella mappa della Milano ebraica sotto il nazi-fascismo si trova anche un luogo tornato oggi di attualità per il progetto di recupero degli scali ferroviari in disuso. Si tratta dello scalo Farini, uno dei luoghi nei quali gli ebrei svolgevano il lavoro coatto. Alcune foto li ritraggono vicino a una carriola, vestiti con giacca e cravatta: “Quell’abbigliamento poco adatto ai mestieri di fatica serviva a rimarcare che quel lavoro, che dovevano svolgere come schiavi, era stato loro imposto da norme profondamente inique” scrive Costantini.
In questo percorso della memoria non poteva mancare il carcere di San Vittore, dove furono rinchiusi gli ebrei rastrellati a Milano e provincia dopo l’8 settembre oltre a quelli fatti lì convergere dai campi di concentramento in altre parti d’Italia. Una parte del carcere venne requisita dai nazisti per rinchiudervi partigiani ed ebrei. Sono le pagine più angoscianti, per le violenze che venivano perpetrate a opera di aguzzini come Franz Staltmayer, il vicedirettore che girava per il carcere con un cane lupo al guinzaglio e un frustino che faceva schioccare continuamente sugli stivali tirati a lucido.
L’unica destinazione esterna per gli ebrei rinchiusi a San Vittore era la Stazione Centrale: dal binario 31, oggi memoriale milanese della Shoah, partivano i treni diretti ad Auschwitz. Liliana Segre, allora tredicenne, oggi una delle ultime testimoni di quelle deportazioni, ha così raccontato il trasferimento: “Caricati violentemente sui camion, traversammo la città deserta e, all’incrocio di via Carducci, vidi la mia casa di Corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista all’angolo del telone: mai più. Mai più”. Liliana riuscì a salvarsi, suo padre Alberto, deportato con lei, morì ad Auschwitz.