Papa Francesco ha posto un paletto. Pochi giorni prima dell’insediamento del nuovo presidente statunitense Donald Trump, il pontefice ha ricevuto il leader palestinese Abu Mazen in occasione dell’apertura dell’ambasciata di Palestina presso la Santa Sede il 14 gennaio. Un segnale chiaro di politica internazionale in vista dell’improvvida decisione annunciata da Trump di volere trasferire l’ambasciata degli Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.

E’ una decisione che non rappresenta un semplice trasloco, ma costituisce il placet della prima potenza dell’Occidente alla politica del governo Netanyahu di annessione di Gerusalemme Est e un’acquiescenza all’inglobamento di territori palestinesi attraverso le cosiddette “colonie”. Il tutto in contrasto con la posizione di gran maggioranza della comunità internazionale, riassunta efficacemente nella recente risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Francesco parla per segni. Già in occasione del tradizionale incontro con il corpo diplomatico il 9 gennaio scorso, rilanciando l’appello pressante a un dialogo fra israeliani e palestinesi per arrivare ad una “pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini internazionalmente riconosciuti”, il Papa aveva notato quasi di striscio che nel corso del 2016 il Vaticano ha curato la piena attuazione dell’Accordo bilaterale (Comprehensive Agreement) “con lo Stato di Palestina”.

Il rapporto fraterno di Bergoglio con l’ebraismo è di antica data. Francesco è l’unico pontefice che abbia mai predicato (da vescovo) una meditazione in una sinagoga ebraica: la sinagoga a Buenos Aires del suo amico rabbino Abraham Skorka. Ma il pontefice è anche – come Giovanni Paolo II – un leader molto consapevole della realtà geopolitica e del fatto che risolvere la questione palestinese con annessioni successive basate sulla pura forza delle armi – come voluto dagli estremisti nazionalisti e dai fanatici fondamentalisti del partito dei coloni, che “dettano l’agenda” al governo Netanyahu (copyright dell’ultimo discorso del segretario di Stato americano Kerry) – non porterà bene né a Israele, né ai palestinesi, né al Medio Oriente.

Il paletto simbolico, che Francesco ha voluto porre prima della decisione di Trump, consiste nel sottolineare che la Palestina è già uno Stato, per di più ammesso alle Nazioni unite come “stato osservatore” nel novembre 2012 con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti. Non tocca a Israele decidere se la Palestina abbia diritto a essere uno Stato né come debba essere né quali siano i suoi territori. Questo naturalmente se si vuole seguire la via del diritto. Se conta la legge del più forte, sarà un altro discorso. Ma la storia insegna che violenza produce violenza.

Non c’è dubbio che Israele sia l’unica democrazia in Medio Oriente, anzi una grande democrazia funzionante in grado di sottoporre a stringenti indagini di polizia persino i propri presidenti e primi ministri, se accusati di reati. Ma anche una democrazia – lo ricordano le vicende dell’occupazione francese dell’Algeria – può essere oppressiva nei confronti di un altro popolo.
C’è un punto storico fondamentale che i nazionalisti e i fondamentalisti religiosi in Israele fingono di ignorare, accecati dalla presunzione di poter disporre della terra di Palestina a proprio piacimento quasi in nome di un mandato divino: Gerusalemme Est e la Cisgiordania non sono israeliane perché gli arabi, i musulmani non sono gente di passaggio, ospiti illegali in quella che popolarmente chiamiamo “Terrasanta”.

Gerusalemme e la Palestina hanno fatto parte di uno stato musulmano dal 637 dopo Cristo fino alla fine della I Guerra mondiale. Milletrecento anni, più del triplo dell’esistenza politica degli antichi stati di Giudea e Samaria. Lo spazio geopolitico della Terrasanta è dunque necessariamente uno spazio condiviso, in cui l’unica regola non può consistere in una presunta “eredità” divina ma solo nel buon senso del diritto internazionale. E il diritto internazionale ha già definito i confini tra Israele e Palestina.

Francesco ha lasciato il suo segno prima che Trump attui la sua decisione potenzialmente eversiva dell’equilibrio su cui si basa la “soluzione pacifica dei due Stati”.
Molto dipenderà ora dall’atteggiamento dell’Europa. Non c’è dubbio che su pressione americana potranno esserci nazioni europee disposte ad accodarsi e a non disturbare più il manovratore Netanyahu, riuscito con successo a superare gli otto anni di presidenza Obama sabotando ogni autentica ripresa dei negoziati di pace.
Il Vecchio Continente ha un debito verso Israele dopo la tragedia della Shoah: garantire l’esistenza del popolo ebraico nella sua patria ritrovata. E’ un debito d’onore che riguarda i suoi confini internazionalmente riconosciuti. Non terre strappate ad altri.

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