Il documentario HBO è un ritratto garbato ma per nulla edulcorato di una famiglia hollywoodiana, di una dinastia talentuosa e problematica. È un rapporto tra madre e figlia che in superficie può sembrare molto aderente al cliché da star californiana, ma che piano piano si mostra in profondità
Anche senza la commozione provocata dalla morte ravvicinata di Carrie Fisher e Debbie Reynolds, bisognerebbe considerare Bright Lights (il documentario che le riguarda e che è andato in onda su Sky Cinema e su Sky Arte e ora disponibile su Sky On Demand) un gioiello inestimabile. Capita di rado che due grandi star hollywoodiane si aprano così tanto, si mostrino senza filtri e senza finzioni da dive, e se a farlo sono due personalità così imponenti come Fisher e Reynolds, figlia e madre diversissime eppure così evidentemente “connesse”, il risultato è di rara forza narrativa e soprattutto di rarissima verità.
Debbie Reynolds è stata la diva, la grande star vecchia scuola che non si mostra mai senza trucco o con i capelli in disordine, che fino a un attimo prima è sofferente, confusa, spaesata a causa degli acciacchi dell’età, e che pochi minuti dopo ringrazia con la solita perfetta maestria la platea dei SAG Awards per il Lifetime Achievement. Carrie Fisher, invece, è stata Carrie Fisher anche in Bright Lights. Fragile, sarcastica, corrosiva, sincera. Ha raccontato la sua vita tumultuosa, le scelte sbagliate, le droghe, il rapporto difficile con i genitori, il disturbo bipolare, con una sincerità così leggera e spontanea da trasformare anche i momenti più drammatici in attimi di poesia pura. Il documentario HBO è un ritratto garbato ma per nulla edulcorato di una famiglia hollywoodiana, di una dinastia talentuosa e problematica. È un rapporto tra madre e figlia che in superficie può sembrare molto aderente al cliché da star californiana, ma che piano piano si mostra in profondità, svelando gli strati nascosti di dinamiche familiari che solo un racconto sincero e genuino come quello di Bright Lights avrebbe potuto mostrare.
Carrie si è trasformata, da figlia ribelle e tossicodipente quale era, in amorevole angelo custode della diva Debbie, con i ruoli che sembrano invertirsi in maniera poco naturale ma che invece sono inediti, visto che la Reynolds non è certo stata una madre presente o troppo amorevole, alle prese con una carriera lunghissima e ricca di soddisfazioni. La figlia lo sa e non lo nasconde (a se stessa o alla telecamera), ma sa anche quando è il momento di andare oltre, di spazzare via la polvere tossica che quasi sessant’anni di vita hollyoodiana ha fatto in modo che si sedimentasse sulla loro vita. Sa che è il momento di unirsi, e non solo all’apparenza, quasi come se sentisse che la fine è vicina per entrambe. Il rapporto tra Fisher e Reynolds è viscerale, onesto, sfrontato. La figlia senza filtri e la madre diva alternano una delicatissima danza a momenti di intenso confronto intellettuale e sentimentale. È un passo a due da grande musical della Hollywood dei tempi d’oro che si unisce a un duello con le spade laser di Guerre Stellari e fa nascere, inaspettatamente, un ritratto bellissimo di due donne vere, capaci (più Carrie che Debbie) di mettere da parte le sovrastrutture e i cliché e aprirsi al mondo.
Bright Lights è un raro esempio di come un documentario su una grande star può essere anche altro rispetto al solito ritratto agiografico. È trionfo e miseria, è successo e sconfitta, è forza e debolezza. E il fatto che Debbie Reynolds e Carrie Fisher non ci siano più e che siano morte a distanza di 24 ore l’una dall’altra, serve solo a rendere il tutto ancora più commovente, ma non a modificare in alcun modo le personalità di due grandi donne e la loro capacità rara di mostrarsi emotivamente nude di fronte al pubblico.