Quando Fabo mi ha contattato per informarsi sull’eutanasia mi sono trovato di fronte a una persona molto diversa da quelle che costantemente si rivolgono all’Associazione Luca Coscioni. Non un malato terminale nel senso tecnico del termine ma una persona che potrebbe rimanere in quelle condizioni, cieco e immobilizzato, per tantissimi anni, perché il suo corpo è giovane e ancora robusto. Ma davvero le definizioni (terminale, accanimento, desistenza, biotestamento, eutanasia attiva o passiva) non sono la cosa più importante, per questa come per nessun’altra storia.
Fabiano dopo due anni ha deciso che non supporta più questa condizione. Non ha né torto né ragione. Altri, nelle sue condizioni, potrebbero voler andare avanti. Altri ancora magari avrebbero provato a farla finita subito. Nessuno può dire cosa farebbe, finché non ci si trova. Ed è per questo che ciascuno avrebbe diritto di decidere per se stesso.
La legge italiana, invece, si perde e ci perde nelle definizioni, per cui se Fabo dipendesse da una terapia la potrebbe interrompere e morire, se necessario con l’aiuto di un giudice. Altrimenti no.
Sono passati dieci anni da Welby, tre anni e mezzo dal deposito della nostra legge di iniziativa popolare e finalmente il Parlamento sta discutendo almeno di testamento biologico. Ma non è detto che riesca a decidere. A Fabo probabilmente non basterebbe comunque, ma se il suo appello al Presidente Mattarella fosse ascoltato almeno per un’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, il suo sforzo non sarà stato vano.