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Siete pazzi a mangiarlo! Il libro che ti fa passare la voglia di fare la spesa

Il libro di Christophe Brusset è l’immediata constatazione di una truffa mondiale ai danni del consumatore. Punto e basta. Non ci sono spiegazioni ideologiche o filosofiche, ma la semplice constatazione che nel regno dell’agroalimentare occidentale, quello dove si preparano le marmellate della colazione, il prosciutto per il sandwich del mezzogiorno, il minestrone per la cena, vige un solo credo: il profitto aziendale

di Davide Turrini

Non c’è da stupirsi se nella copertina di Siete pazzi a mangiarlo! (Piemme) ci sia la foto di un carrello del supermercato completamente vuoto. Già, perché dopo aver letto le confessioni di un insider come quelle dell’ingegnere agroalimentare Christophe Brusset, 20 anni di esperienza nel settore acquisizione/vendite tra spezie, carne, yoghurt e cipolle inscatolati, ti passa la voglia di fare la spesa. L’elenco delle inqualificabili e fraudolente pratiche per creare ogni genere di prodotto alimentare, da quello più di lusso come il tartufo al più semplice pomodoro, provoca indignazione e fastidio, repulsione e conseguente sfiducia rispetto a qualsiasi alimento possa essere presente tra gli scaffali del vostro iper. Impossibile leggere un capitolo del libro, ad esempio quello sugli additivi, senza correre in cucina e cominciare a leggere ogni sigla alfanumerica presente sulle vostre amate scatolette della tisana della sera. Ma andiamo con ordine. Intanto, stilisticamente, il libro di Brusset ha la classica forma del j’accuse che va molto di moda recentemente. La classica folgorazione del pentito, un po’ alla Confessioni di un sicario dell’economia (Beat, Milano) di John Perkins, dove si punta il dito verso il colosso industriale o contro le istituzioni corrotte, mostrando che il “re è nudo”. Una dimostrazione pratica che nel caso di Brusset non ha però bisogno di troppi preamboli teorici e storici. Siete pazzi a mangiarlo! è l’immediata constatazione di una truffa mondiale ai danni del consumatore. Punto e basta. Non ci sono spiegazioni ideologiche o filosofiche, ma la semplice constatazione che nel regno dell’agroalimentare occidentale, quello dove si preparano le marmellate della colazione, il prosciutto per il sandwich del mezzogiorno, il minestrone per la cena, vige un solo credo: il profitto aziendale. E per raggiungerlo, ovvero per comprare a prezzi sempre più bassi, i “capi” sono disposti a tutto. Anche a lasciare, o inserire volontariamente, dentro al cibo venduto cacche di topo, segatura, pesticidi, coloranti per vernici, solventi, antibiotici, ormoni che stimolano l’appetito.

Facciamo qualche esempio, delle decine che trovate nel libro di Brusset. Possiamo partire dalla semplice contraffazione dell’origano, letteralmente sostituito in percentuali sempre maggiori dal sommacco; le spezie in polvere mescolate ad escrementi di ratto; il basilico o il prezzemolo inscatolati assieme a graziose coccinelle; i formaggi mescolati con acqua, latte in polvere, polifosfati, citrato di sodio e acido citrico (“i consumatori medi consumano prodotti medi, molti non hanno mai avuto la fortuna di gustare un vero formaggio”); i salumi gonfiati con polifosfati per renderli più pesanti, poi immersi in un bagno di additivi finché non si crea un pastone che viene colato in stampi di dieci metri tagliato poi finemente per finire in tavola come Cordon Bleu.

Ancor più incredibili risultano la “preparazione” della marmellatina di fragole che si mangia negli alberghi (solo sorbato di potassio, benzoato di sodio e sei sette acheni delle fragole per simulare la presenza della frutta) o quella della ricetta berbera del Ras El Hanout composta da “scarti, lotti scaduti, aglio rappreso, farina con insetti (…) tanto la ricetta è originariamente segreta”. Brusset stesso per essere assunto vent’anni fa ad alto livello manageriale ha dovuto superare una prova difficilissima, raccontata nel libro: smerciare una partita dal valore di centinaia di migliaia di euro composta da funghi “blu”. Soluzione? Una bella impanatura spessa con materiali di quart’ordine e via. L’importante è non far perdere soldi all’azienda. L’autore parla chiaro: scarsi e inefficaci i controlli delle autorità, ma soprattutto anche quando qualche zelante funzionario blocca una partita di tè cinese con talmente tanti pesticidi da finire all’ospedale, o ci si ingegna semplicemente aggirando l’embargo verso un paese vietato, pratica pressoché abitudinaria nel settore; o addirittura sono le autorità politiche stesse a chiudere un occhio per non disturbare i padroni del vapore dell’agroalimentare.

In questo Brusset è spietato. Il suo racconto è l’allegra e inquietante testimonianza della piena deregulation capitalistica (“Un’impresa non è un servizio sociale dello stato”). Imperativo: delocalizzare la produzione ovunque. Secondo: acquistare materie prime sempre più scadenti per aumentare di continuo il margine di ricavo dell’impresa. Ma soprattutto: fregarsene altamente della “qualità” del prodotto finito. In tutta questa tragicommedia della contraffazione e della frode, infatti, sembrano infine mancare all’appello un paio di attori: associazioni di consumatori e coscienza minima proprio dell’acquirente che Brusset definisce “gonzumatore”. In compenso grande protagonista del libro, regina della frode e della sistematica contraffazione di ogni tipo di alimento è la Cina, il “paradiso della corruzione e del suo corollario”. Il racconto della raccolta di tonnellate su tonnellate di pomodori marci e marroni sotto il vigile controllo della autorità nella regione dello Xinjiang è qualcosa che induce al vomito, anche se poi quella pappetta insapore finisce regolarmente sulle nostre tavole.

Last but not least, la gola profonda Brusset ci lascia un vademecum su come orientarci e reagire di fronte allo sprofondo dell’agroalimentare: preferire gli estratti naturali alle molecole artificiali, comprare prodotti interi ed evitare polveri e puree, stare alla larga dei prodotti a marchio dei distributori, controllare le date di scadenza (“il rischio di intossicazione dopo la data è concreto”) e le confezioni (il capitolo sugli olii minerali cancerogeni presenti nei contenitori riciclati per le lenticchie fa spavento), ma soprattutto anche se in tempi di crisi comprare meno e comprare meglio “magari spendendo un po’ di più” perché è nei prodotti a prezzi stracciati che si nascondono le peggio schifezze dell’industria agroalimentare occidentale.

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